10.000 giorni di latitanza, che schifo

Aprile 2008, centro di Palermo. Alle spalle della Cattedrale compare un murales, in stile Andy Wharol, raffigurante un uomo in Ray Ban, con annessa scritta ‘Matteo Messina Denaro, l’ultimo’.

Dal 2008 sono passati 9 anni, eppure quest’uomo, ad oggi, rimane ancora l’ultimo.

Gli anni passati, invece, dall’inizio della sua latitanza, sono ben di più.

Era il 1993 quando Messina Denaro si rese irreperibile dando inizio ad una fuga che continua tutt’oggi, nonostante le apparizioni vere o presunte.

Capo mandamento di Castelvetrano dopo la morte del padre, e fautore, insieme a Leoluca Bagarella, cognato di Riina, ed altri, dell’era stragista che portò agli attentati di Firenze, Roma e Milano nonché responsabile di numerosi omicidi, ed infine del rapimento del piccolo Giuseppe Di Matteo, il boss mafioso rappresenta, ancora oggi, per molti uno dei fallimenti del sistema giuridico e politico italiano.

Era latitante quando la sua unica figlia, Lorenza, fu concepita, e lo era anche quando, nel 1994, si recò in una clinica per curare il suo strabismo.

All’arresto di Provenzano, nel 2006, furono ritrovati dei pizzini riconducibili probabilmente al boss che, da allora, ha fatto sempre di più perdere ogni sua traccia.

Diverse volte gli inquirenti sono stati, pare, vicini alla sua cattura, ma per motivi non ben chiari e, spesso, a causa di una fitta retta di informatori infiltrati nel sistema e rapporti occulti con la politica,  Messina Denaro è sempre riuscito a precedere tutti sul tempo.

Un boss amante delle belle donne, dei videogiochi e della moda che, pero’, ha lasciato  nel suo territorio un gusto dolce amaro, tra nostalgia, paura e omertà.

Fu proprio nei suoi abiti di ottimo taglio e col suo immancabile Rolex al polso che partecipò all’omicidio di Vincenzo Milazzo e Antonella Bonomo, incinta di tre mesi, colpevoli entrambi di essere nemici e testimoni scomodi nella guerra per la presa al potere dei Corleonesi.

Una famiglia in odor di mafia sin dagli albori, con, fra gli altri, il padre Francesco Messina Denaro morto da latitante nel 1998 dopo ben 9 anni di fuga, e la sorella Patrizia, portavoce fidata del più noto fratello Matteo, condannata per associazione mafiosa nel 2016.

Gli inquirenti hanno infatti, negli anni, intrapreso un percorso di indagine volto a far terra bruciata intorno alla famiglia per danneggiare e interrompere la ragnatela di rapporti economici del boss, che è diventato sempre più malvisto, in particolare tra i ‘colleghi d’onore’ per l’indifferenza mostrata davanti agli arresti a tappeto piovuti nelle sue parentele.

«Arrestano i tuoi fratelli, le tue sorelle, i tuoi cognati. E tu non ti muovi? Ma fai il bordello… svita a tutti… se avete i coglioni… uscite tutti fuori… sennò vi faccio saltare»

Un uomo avvolto nel mistero, sulla cui persona è stato possibile negli anni fare ricostruzioni solo grazie agli informatori che, tra l’altro, hanno reso possibile anche tracciarne un identikit più vicino al vero, dato che le foto segnaletiche presenti agli atti risulterebbero antecedenti agli anni 90 e quindi non utili.

«Ho avuto un rapporto particolare con la morte, mi è sempre aleggiata intorno e so riconoscerla, da ragazzo la sfidavo con leggerezza, oggi da uomo maturo non la sfido, più semplicemente la prendo a calci in testa perché non la temo, non tanto per un fattore di coraggio, ma più che altro perché non amo la vita», scriveva il boss in una corrispondenza con Antonio Vaccarino, ex sindaco di Castelvetrano che agiva in accordo col Sisde, il servizio segreto civile.

Matteo Messina Denaro non ama la vita, o almeno così dice, ma probabilmente la amavano le sue vittime, e le vittime del suo potere mafioso finora rimasto impunito che, all’alba di quasi 25 anni di latitanza, ancora aspettano giustizia.