110, lode e una magia spenta

Una laurea con lode e tanti sogni nel cassetto. Questa è la storia di Antonio, uno dei tanti ragazzi del sud che è stato costretto a lasciare la sua terra, le sue radici, per cercare “fortuna”  altrove. Il giornalismo, purtroppo, non gli ha offerto nessuna prospettiva e oggi fa il bidello a tempo determinato: un lavoro che certamente non lo gratifica e che gli fa affrontare il futuro con molteplici incognite.

Partiamo da quando a diciannove anni hai scelto la strada del giornalismo. Cosa ti ha spinto a fare questa scelta e da dove è nata questa passione?

La scelta di provare a intraprendere la carriera da giornalista è nata sui banchi del liceo, proprio nell’anno in cui avevo l’onore di disputare la Finale Nazionale dei Giochi Internazionali della Matematica alla “Bocconi” di Milano e quella regionale delle Olimpiadi della Chimica; insomma, in quel 2004 che sembrava chiaramente volermi dire: “Devi diventare uno scienziato”. Se non che un giorno la mia amatissima professoressa di Lettere, la più severa che io abbia mai avuto, la più preparata e anche quella dal cuore più grande, portò in classe i temi dopo averli corretti. Io ero stato sempre un asso nello scrivere i temi, ebbi sempre la passione smisurata per la scrittura, ma mai mi sarei aspettato di sentirmi dire dalla prof. più severa mai avuta “ti ho messo 9, ma sopra c’è un asterisco, che significa che per me quello è un 10, ma io, per una mia questione di principio, non metto mai 10. Questo è il tema più bello che abbia letto in vita mia, mai mi era capitato di commuovermi per uno scritto simile”. Mi si aprì un mondo, capii che quella della scrittura era la mia strada e che per intraprenderla dovevo passare attraverso il giornalismo, l’unico mezzo attraverso il quale potevo unire alla scrittura la mia smisurata passione per il calcio e per la telecronaca sportiva, negli anni in cui Bruno Pizzul era per me una sorta di Dio in Terra. Mi iscrissi a un corso di giornalismo scolastico e da lì partì tutto. Per la cronaca, il tema non era calcistico, ma era sull’unico personaggio famoso la cui morte riuscì a farmi piangere: Marco Pantani, scomparso qualche mese prima.

Sei nato in un paese della Calabria in cui andarsene è un passaggio obbligato. Qual è la realtà che hai respirato e che ancora oggi contraddistingue la tua terra?

Sono nato, inutile negarlo, in un paese in cui è difficile non respirare aria di ‘ndrangheta, in cui esistono persone magiche, favolose, come i miei amici e la mia famiglia, ma in cui c’è anche tanto marcio. Ma quella persona splendida che è mio padre è riuscito, in questo ambiente difficile, a farmi capire qual’era la strada giusta e quale quella da non intraprendere mai, installando dentro di me, grazie all’opera di mia madre, sempre presente, un’educazione unica, che credo sia il più grande pregio di cui dispongo. Ho sempre saputo che un giorno, se avessi voluto sfruttare appieno le mie passioni, avrei dovuto abbandonare quel posto, ma non l’ho mai fatto, a parte l’ovvia parentesi universitaria, vuoi per una sorta di amore sconfinato per la propria terra, a prescindere da tutto, vuoi per un amore senza limiti verso i miei cari. Fin quando la vita ti costringe a farlo. Io amo ancora la mia terra, amo ogni singolo albero, ogni strada, amo il mio mare, amo lo splendido panorama che si vede dalla collina sulla quale è situato. Poche persone al mondo possono permettersi di avere di fronte a sé un tramonto sul mare, con sullo sfondo la Sicilia, l’Etna e le isole Eolie. Una magia che, purtroppo, è spesso inquinata da tutto quello che la malavita porta con sé. Il mio più grande sogno è poter tornare a vivere lì, un giorno, sapendo che c’è lavoro per tutti, sapendo che ci sarà più educazione, una mentalità meno ottocentesca e uno sviluppo che possa permettere alla mia gente di non emigrare e vivere in serenità con i propri conterranei. Questo, checché se ne dica, oggi è lontanissimo dall’essere realtà.

Dopo la laurea con lode e il tanto agognato tesserino da pubblicista qualcosa è cambiato per il tuo futuro?

Voglio essere sincero, crudo se è possibile. Assolutamente niente. Magari la colpa è mia, la mia poca intraprendenza, la mia poca voglia di rischiare. Ma c’è una frase sul giornalismo, di cui purtroppo non ricordo l’autore, che ho letto poco tempo fa e che, data la mia esperienza personale, la reputo un’amara ma indiscutibile verità: “Il consiglio che posso dare a chi voglia intraprendere una carriera da giornalista è quello di avere una famiglia benestante alle spalle”. Forse non è un dogma, ma, per la mia esperienza personale, non ci può essere niente di più vero. Quando vieni da una famiglia numerosa e con grosse difficoltà economiche come la mia, puoi permetterti di fare i sacrifici per studiare, grazie alla tua preparazione e alle conseguenti borse di studio, puoi permetterti di sacrificarti a scrivere per questo o per quello giornale a titolo gratuito, puoi permetterti di pagarti le tasse per conseguire un tesserino da pubblicista, che altro non è che una becera schedatura di stampo fascista. Ma poi basta. Quando arrivi a 27 anni e vedi che questi sacrifici non hanno portato a niente, che il meglio che ti propongono, pur di avere in cambio una manciata di voti alle elezioni, è di scrivere un articolo ogni tanto su un giornale locale a 4 cent a riga, allora capisci che il giornalismo, per quanto sia il tuo sogno, sia destinato a rimanere tale. Perché quando tuo padre ha 5 persone, lui escluso, da mantenere con mille euro al mese e tu sei un uomo di 27 anni, comprendi che non puoi più pesare sulle sue spalle, capisci che è l’ora di andare a vivere da solo. E per vivere da solo il giornalismo non può bastare, perché non si vive di 5-10 euro la settimana. E allora parti per dove pensi di avere la speranza di trovare un lavoro qualsiasi che ti permetta almeno di sopravvivere. E poco importa se quel lavoro è il bidello e tu hai studiato 6-7 anni e sei sempre stato il più bravo della classe; poco importa se devi andartene a 1300 km dai tuoi cari e dai tuoi amici e puoi vederli solo a Natale e in estate; poco importa se vai in un posto dove l’unica persona che conosci è te stesso, e inizi anche a dubitarne. Perché con oltre il 40% di disoccupazione giovanile in questo Paese vergognoso, devi solo ringraziare il cielo di riuscire a cavartela da solo. C’è chi sta peggio, molto peggio. Non esiste nulla di più inaccettabile che sentire padri di famiglia suicida a causa dei debiti. Significa che la patria che tanto ami ha toccato il fondo.

Che consiglio ti senti di dare ai giovani che come te vogliono intraprendere questa professione e ai politici che ci rappresentano?

Bellissima domanda, perché alla prima non saprei cosa rispondere e per la seconda avrei tante di quelle cose da dire che si potrebbe scrivere un libro. Cercando di essere il più diplomatico possibile, a chi mi dovesse chiedere un consiglio sulla carriera da giornalista dico, senza troppi giri di parole, di cambiare aria, se ci riescono. Perché è un mestiere che non ti permette di vivere e perché per arrivare al punto in cui si può vivere di solo giornalismo bisogna avere dei santi in paradiso, inutile nasconderlo. Ai politici, ed è molto arduo per me non lasciarmi andare a insulti, posso dire di mettersi una mano sulla coscienza, di pensare che la gente si toglie la vita, la gente muore di fame, la gente si ammala e si dispera. Che siamo tutti figli della stessa nazione, che loro sono pagati profumatamente per tutelarla, per far sì che tutti possano vivere in condizioni dignitose. E di non aver paura del giornalismo, di non opprimerlo, come accade, ma di tutelarlo, perché il giornalismo è la più grande arma di difesa che il popolo sovrano ha contro i delinquenti che governano, ma allo stesso tempo è il più grande strumento di esaltazione per chi fa il proprio operato con onestà e negli interessi supremi della democrazia. Solo chi ha scheletri nell’armadio si scaglia contro i giornali. E in questo Paese sono in netta maggioranza.

Se potessi rivoluzionare il mondo del giornalismo, cosa cambieresti?

Tante, troppe cose. Come detto, abolirei l’Ordine, strumento nato sotto il fascismo e quindi sua chiara emanazione, che poca ha a che fare con una democrazia e caso unico nei Paesi cosiddetti civilizzati. Incentiverei i corsi di laurea, dai quali eliminerei gran parte della teoria per concentrarsi sul lavoro sul campo, perché il giornalismo questo è, lavoro a contatto con i fatti. Cercherei di creare più posti di lavoro, ad esempio attuando una legge che già esiste, la 150/2000, che prevede che le  Province e i Comuni con una popolazione superiore a 10 mila abitanti devono essere obbligatoriamente dotate di uffici stampa, istituiti tramite personale iscritto all’albo nazionale dei giornalisti. Soltanto con l’applicazione di questa legge si creerebbero migliaia di posti di lavoro in questo settore. E, soprattutto, mi piacerebbe che chi è seduto da 40 anni sulla stessa poltrona provasse a lasciare un po’ di spazio ai giovani, godendosi la pensione con famiglia e nipoti. E tanto, tanto altro.