Gioacchino Crisafulli, ucciso in via precauzionale

Il 27 aprile 1983 veniva ucciso, l’appuntato dei carabinieri in congedo Gioacchino Crisafulli, “colpevole” di essersi insospettito per le manovre di un camion guidato da un “picciotto” e che trasportava casseforti piene di soldi provenienti dal traffico di droga.

 

Riportiamo in seguito il ricordo del figlio, Carmelo Bartolo Crisafulli

Mio padre è stato ucciso perché era un carabiniere e perché quando si è Carabinieri lo si è per sempre. Il mio dramma, perché di questo si tratta, fu quello di essere in servizio attivo presso il Nucleo di Polizia Giudiziaria dei Carabinieri proprio all’interno di quel Palazzo di Giustizia soprannominato dei “veleni” del “corvo”, dove non c’era giorno che non emergesse il sospetto di talpe, che lavorassero per favorire “cosa nostra”. Lavorare per anni, con gli occhi addosso di tantissimi colleghi, magistrati di quell’Ufficio Istruzione, che annoverava nomi prestigiosi come quello di Chinnici, che ne era a capo, Falcone, Borsellino, Di lello, Guarnotta, ma anche di tutti i Sostituti Procuratori, che indagavano a 360°, collaborare con loro nelle tantissime indagini, interrogare, arrestare tantissime persone, senza che emergesse la motivazione di quell’omicidio, e facendo emergere sospetti terribili, anche sulla mia persona, poiché appariva strano che un carabiniere (mio padre) non si confidasse con il figlio (carabiniere) in servizio attivo e proprio nel posto più importante che era il Palazzo di Giustizia. Ecco, aver indagato, perché lo facevo, eccome se lo facevo, alla vecchia maniera, come mi era stato insegnato da persone come Dalla Chiesa o dal suo Vice, Valentini, o ancora Bonaventura e tanti tanti altri, che in un modo o nell’altro ebbi la fortuna di incontrare durante il mio servizio, aver insistito, aver fatto il passa parola, che qui in Sicilia conta più dei fatti, ha portato, grazie a Dio, nel quale avevo riposto tutte le mie speranze, che crescevano sempre più, al pentimento proprio di un capo mandamento e che attraverso i riscontri oggettivi, che vanno sempre fatti, mai prendere per oro colato quello che i pentiti asseriscono, perché sempre di criminali si tratta, ecco, ha aperto una breccia, che è diventata voragine. Poi ho dovuto lottare perché non finisse tutto lì, come capita spesso nel nostro Paese e allora un giorno mi chiamò il Generale Teo Luzi, oggi comandante della Legione Lombardia, che scorrendo l’elenco dei caduti da ricordare, si accorse che mio padre non era inserito, imparò la sua biografia, studiò la sua storia, fornii le sentenze e tutta la storia processuale e lo propose per una decorazione “alla memoria”, ma erano trascorsi tanti anni e queste cose, sembravano avere una scadenza, come i cibi in frigorifero. La caparbietà, l’insistenza, la fede e la stima verso le Istituzioni, hanno fatto il resto e quest’anno dopo 35 anni l’Arma ha appuntato sul mio petto quella Medaglia d’Oro al M.C. concessa dal Presidente della Repubblica Mattarella e il Brevetto attribuiti in proprietà, ai sensi dell’art. 11 D.P.R. 23.10.1957 n.1397. Per l’occasione volli indossare le medaglie di mio padre, medaglie di guerra, perché lui l’ha combattuta la 2^ guerra mondiale, sfuggì alla cattura dei nazifascisti, lo aiutarono a Santa Maria Capua Vetere, seppellendolo in una stanza sotterranea fra i mazzi di tabacco. Sono trascorsi tantissimi anni è vero, sono stati anni terribili, molti dei quali vissuti girando armato e con l’occhio sempre vigile, i miei superiori temevano che potessero colpire anche me, ancora una volta dopo quel 1° ottobre 1978 e per questo volevano trasferirmi ad altro incarico, lontano da Palermo. Così come rifiutai la scorta a Milano, anche questa volta m’imposi e restai al mio posto, senza alcun tentennamento, proprio per quel giuramento fatto a 20 anni e che è sempre valido, in pace e in guerra, in servizio attivo e in quiescenza.

Spero di aver risposto alla “tenacia” che mi hai attribuito”.