Un primo maggio speciale tra il profumo di fiori, lezioni di legalità e il desiderio di incontrarsi. Alberi come metafora di bellezza. Bellezza sulla scia del dolce ricordo di Peppino Impastato, dei suoi ideali, dell’amore per l’impegno civile e quella voglia agguerrita di cambiarlo questo mondo. L’iniziativa è nata l’anno scorso, con l’inaugurazione del giardino dei giusti, ma per capire più da vicino lo spirito non certo solo campestre, che ha caratterizzato l’evento, acceso, dal forte desiderio di lanciare un messaggio a una società troppo spesso apatica e indifferente, abbiamo intervistato Santo Laganà, presidente dell’associazione antimafia Rita Atria di Milazzo. “L’iniziativa -ci spiega Santo- è nata perché in quel posto, sede dove la fondazione Lucifero svolge il suo lavoro, l’associazione Il Giglio, che fa parte di Libera, svolge un lavoro con i bambini che vivono un disagio sociale: coadiuvando ai fini istituzionali l’incontro con la legalità. Bellezza e rispetto sono gli ingredienti fondamentali, nella direzione proprio di Impastato”. I luoghi hanno subito una sorta di ‘confisca preventiva’, un intervento davvero lungimirante, che, grazie anche all’ausilio di Libera ha permesso di evitare che mire speculative ne impedissero per sempre, azione di carattere sociale”. Stavolta però, dietro i settanta frutti non ci stanno le vittime, ma i vivi, uomini altrettanto giusti, che, ogni giorno nonostante le mille difficoltà, portano avanti la propria battaglia contro il malaffare. Da questi nobili ideali sarebbe scaturita l’idea di chiamare l’angolo fiorito- pezzo di legalità, “giardino dei responsabili”. Sì, responsabili, parola che richiama responsabilità, e riporta alla memoria una celebre frase di Gioconda Belli, che vedeva e vede: “l’unica responsabilità verso il futuro come una seria responsabilità per il presente”. Nel microcosmo rappresentativo degli “eroi” della legalità, racchiuso nel giardino, c’è spazio per le istituzioni, ma non tutte, come ci tiene a sottolineare il nostro intervistato, facendo riferimento solo alla parte buona: “Magistrati, forze dell’ordine, vittime ancora non riconosciute e la parte sana della chiesa”. Ad un certo punto di questo racconto, le metafore fiorite diventano nomi, persone, storie. Attilio Manca, Graziella Campagna, Ignazio Aloisi, Adolfo Parmaliana. C’è chi ha ingaggiato una lotta contro verità appannate e c’è chi non ha ottenuto completa giustizia. Tra i rappresentanti della chiesa Don Luigi Ciotti, tra le associazioni (Agesci, Il giglio, Rita Atria), tra gli imprenditori Gaetano Saffioti, che ha avuto il coraggio di denunciare gli estortori rimanendo nel proprio paese e infine i giornalisti. Gli operatori dell’informazione con la schiena dritta (Antonio Mazzeo, Riccardo Orioles, Graziella Proto, Pino Maniaci e i ventidue minacciati). L’intervista non si può che chiudere con una domanda che forse tutti noi ci poniamo: Che cosa significa fare antimafia? La risposta torna di grande interesse perché arriva da chi l’esperienza la fa sul campo: “L’antimafia si compie con due parole Rigore e coerenza. Prima rivolta verso noi stessi, e poi, verso il prossimo. Non contano né le frasi, né le parole, né le promesse, da chiunque esse provengano. Tessere di partito e riconoscimenti pubblici non qualificano come eroi dell’antimafia. La strada è in salita, irta di difficoltà, ma il non scegliere da quale parte schierarsi è ancor peggio di stare con la mafia. D’altronde come mi piace spesso dire, la mafia è un albero pluriramificato che cresce in un terreno fertile, il cui concime è la nostra indifferenza”. Insomma, lezione saggia e rara, quella che arriva dall’associazione antimafia Rita Atria perché chi la fa, disdegna palchi, applausi, onori pubblici, sia perché questo spazio è già troppo popolato, sia perché il tempo è speso in altro modo.
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