Alla ricerca dell’Unità perduta

Il sommo maestro Dante aveva prefigurato la “territorialità” della nostra cultura, vale a dire il legame profondo che ogni espressione culturale ha con la terra di origine, quando nell’opera “De Vulgari eloquentia” per la prima volta si parlò della mancanza di una lingua comune nel nostro paese. Anche allora paradossalmente, l’Alighieri riconosceva un fronte padano ed uno più trasversale per così dire, appenninico. Ma se spostiamo il ragionamento squisitamente letterario sul piano politico, le cose oggigiorno non sembrano essere cambiate di molto. Ma mentre ieri la nobiltà delle tradizioni letterarie bolognesi, toscane e siciliane rappresentavano un vanto per l’Italia, perché unica convergenza che si contrapponeva alla disgregazione dei Comuni in lotta e degli Stati regionali, la cultura era l’unico elemento che portava in dote alla nazione futura il segno profetico dell’Unità del suo popolo.

In altri tempi la retorica istituzionale avrebbe preteso che il popolo festeggiasse il giorno dei giorni, il 17 marzo appunto, come festa dell’Unità della nazione, favorendo momenti di condivisione dello spirito patriottico e accomunando tutte le forze politiche e sociali attorno al valore della Nazione. Nell’ultimo decennio tale sentimento è stato sacrificato all’altare degli equilibri politici delle alleanze per governare il Paese. Siamo entrati nell’anno del 150mo anniversario dell’Unità d’Italia ma viviamo ancora le contraddizioni dei territori attraversati da nuovi campanilismi. L’accusa principale: troppo Stato, troppi costi della politica, troppi privilegi. La trappola del localismo sembra comunque caratterizzare i fenomeni secessionisti ed autonomisti nati a seguito dell’affermarsi di forze politiche antitetiche alle ragioni dello stare assieme.

Una situazione del genere non esiste nel federalismo europeo, che ha scelto vie diverse ai disegni che attualmente sta proponendo la Lega Nord, partito di governo che nel suo assetto politico ha nei suoi obiettivi il riscatto degli enti locali dal centralismo. Tuttavia, il modello leghista, a fronte di un enunciazione teorica, sta nei fati perseguendo un percorso politico che nulla ha a che vedere con i modelli federalisti occidentali. Il modello tedesco ad esempio sottopone al governo regionale il governo locale, secondo una scala di valori che all’apice pone lo Stato e l’indissolubilità del principio nazionale. L’interrogativo è facile: quale cambiamento avverrà da noi? Preverrà il centralismo dei tagli orizzontali del ministro Giulio Tremonti o il municipalismo dei seguaci di Alberto da Giussano che più che alla vicina Austria, assomiglia al modello brasiliano delle Città Stato? Ma nell’attesa che il futuro dell’assetto istituzionale sia scritto, rimane un’Italia che si appresta al suo terzo giubileo della patria senza quella tensione etico-civile che ha animato le masse popolari che nell’ideale della nazione hanno dedicato passione, impegno sociale e politico anche nell’alterità degli schieramenti.

Le note dell’Inno di Mameli, hanno sempre accompagnato le feste di partito e i congressi sia delle forze più a sinistra come il PCI che delle forze moderate e liberali aperte alle autonomie locali come la Democrazia cristiana, il Partito liberale e quello repubblicano. Oggi lo scenario è desolante. Il Nabucco del Verdi diventa la bandiera della secessione del Nord perdendo di significato e anche il Premier Berlusconi sventola il fazzoletto con su la stella alpina a seguito dell’approvazione di qualche settimana fa, del federalismo municipale, tanto difeso dalla sua maggioranza di Governo. Anche la destra sembra aver perso l’identità nazionalista. Nonostante il recente tentativo del presidente della Camera, Gianfranco Fini, di riproporre un modello di destra alternativo a quello di La Russa e della Ministra all’Istruzione Gelmini, consociativo con la denigrazione verso ogni forma di memoria comune del Paese, l’ideale della patria sembra essere solo appannaggio di una minoranza nostalgica che non riesce ad essere più forza di governo nel Paese.

A preoccupare è il costante divario tra Nord e Sud, un’ampia divaricazione mai sanata che mantiene in vita “due Italie”, mortificando le conquiste dell’unità, di ciò che Benedetto Croce ha indicato come il più grande capolavoro politico dell’Ottocento europeo. Quello che era scontato, oggi sembra non esserlo più. Il Nord e il Sud sembrano quindi due stati che faticano a stare assieme dietro le esigenze concrete di una vita unitaria. Dalla sanità, all’Istruzione, passando per le opportunità di lavoro e la qualità della vita, ha ridotto la questione meridionale come l’unico vero problema da risolvere seguendo gli standard del civilissimo e progredito settentrione d’Italia. I Padri dello stato unitario hanno sempre ritenuto che le regioni meridionali del nascente Regno (1861) dovevano migliorarsi in una chiave solidaristica e nazionale. Tuttavia, le reciproche pretese hanno determinato nel tempo una disaffezione del significato morale dell’Unità a favore di recriminazioni a posteriori del Nord contro il Sud parassitario e di un Nord visto dal Sud come sfruttatore delle risorse del Sud. In questo ragionamento mancano alcuni aspetti. Il Sud più che l’assistenzialismo, ha sempre chiesto soluzioni perequative per se stesso, mentre il Nord è stato luogo di forti contraddizioni tra le politiche pre-unitarie di una classe politica lungimirante e i risvolti successivi che hanno al contrario limitato lo sviluppo e il progresso di una parte del Paese.

Cosa resta oggi del Risorgimento italiano? C’è da dire che ciò che sembrava dato per acquisito, in quest’ultimo decennio è stato rimesso in forse per opportunità di schieramenti. Con la fine dei grandi partiti di massa, la nascita di un fronte anti-italiano nel Parlamento, ha significato una rottura tra i simboli dello Stato e le istanze del localismo. Così come il risorgimento creò le condizioni per l’avvio di un processo di unificazione di porzioni di Paese profondamente diverse (l’esercito, la scuola, la lingua appunto, le grandi infrastrutture, la vita politica ed inseguito il grande ruolo dei mezzi di comunicazione che permisero l’incontro, la conoscenza e la comprensione tra le diverse realtà regionali dietro la costruzione di un sentimento nazionale positivo e fiducioso nel futuro), il ritorno alle identità territoriali ha determinato un rifiuto dello status quo da parte della maggioranza del Paese, quasi a voler riscrivere i tratti caratteristici di quel moto di popolo sfociato nel plebiscito sabaudo. Tornano così il Lombardo-Veneto del partito di Umberto Bossi, la presa di distanza dal processo di unificazione di molti Governatori regionali spinti dal chiedere maggiori libertà nella gestione delle rispettive macchine amministrative, il “miraggio” trentino che in questi anni ha portato molti comuni del Veneto alla scelta referendaria di passare da una Regione all’altra in cambio di benefici fiscali ed infine il neosicilianismo del Presidente Raffaele Lombardo.

A distanza di 150 anni, si sono così riproposte le tradizionali fratture di cui lo stesso Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano ha dovuto, suo rammarico, prenderne atto.

Fratelli coltelli. L’Italia si accinge a festeggiare la propria identità non proprio sotto i migliori auspici. Quale monito per le nuove generazioni? La realtà sociale ed economica non aiuta certo i giovani italiani a guardare alla Nazione come un ideale aggregante. La competizione tra giovani per la ricerca di un posto di lavoro e della più necessaria sicurezza economica ha fatto sì che aumentassero i mal di pancia e epiteti che sembravano superati dal sudore di chi li ha preceduti nelle fabbriche di Torino e di Milano, tornano prorompenti nel vocabolario giovanile: terrone e camorrista, oppure siciliano e mafioso da un lato e dall’altro polentone razzista, così come lombardo e leghista, categorie di pensiero espresse in negativo che qualificano i rapporti nell’Italia targata 150.

E’ questo il quadro in cui l’Italia si appresta a vivere i festeggiamenti ma quello che manca è l’unità politica. Il comitato preposto fin dal 2007 e nominato prima da Prodi e adesso da Berlusconi per curare il percorso di preparazione ha espresso un’inattività imbarazzante che certifica lo stato di crisi attuale. Lo stesso Presidente emerito della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ha scelto di tirarsi fuori dalla guida del suddetto comitato per ragioni personale (forse un autentico patriota come lui male sopportava l’ingerenza di taluni ministri nello sminuire il 150° dell’Unità d’Italia) ed oggi rimangono in forse molti appuntamenti sparsi per l’Italia. A tutto questo si aggiungono le resistenze dei poteri forti come la Confindustria della Presidente Emma Marcegaglia o la componente meno affezionata dell’attuale governo ai fasti pubblici, perché inciderebbero nelle casse di un Ministero dell’Economia governato come una mera masseria. L’invocazione del “territorio” come spinta all’affermazione di talune  specificità hanno infine portato le due anime dell’Italia (Nord e Sud) a contendersi la scesa della ragione nazionale. Nelle regioni meridionali si è affermato un atteggiamento “rivendicazionista” a dimostrazione di una storia non proprio superpartes che ha portato alla ribalta fatti ed eventi per cui tanto povero non era il Regno dei Borboni, anzi, le casse del Regno delle Due Sicilie furono ripulite dai debiti di guerra di casa Savoia e le cui risorse sottratte indebitamente sarebbero alla base del consolidamento della ricchezza delle regioni del Nord. La storia consegna quindi le proprie verità ad un’assenza di dibattito che smarrisce gli italiani spesso dietro l’incertezza dei passi della classe dirigente.

Ci sono ancora buoni esempi che possano motivare le ragioni del nostro stare insieme?

Certamente lo scontento degli italiani non giustifica la diffidenza che in questi anni sembra essersi riaccesa nei confronti dell’Altro, del diverso, del migrante che dal Sud ad esempio si sposta al Nord dell’Italia con non pochi sacrifici e distacco affettivo dalla propria terra. C’è da dire che nelle scuole di Treviso non capita di rado che ad insegnare a leggere e scrivere sia magari una maestra originaria della locride. I Fratelli d’Italia del Nord avrebbero forse bisogno di una rinnovata storiografia del cuore che metta insieme ragione storica con solidarietà, rispetto a tante, troppe strumentalizzazioni e strafalcioni istituzionali di recente caricatura, perché fatti gli italiani adesso si faccia l’Italia.

Auguri Italia, orgoglio di popolo,specchio di una nazione che necessariamente deve riappropriarsi del proprio destino.