Il viaggio di «una ciurma che soffre il mal di mare», un viaggio dentro sé e al di là di quelle sbarre che le separano dal mondo esterno, dalla libertà. Una ciurma di donne, le detenute del carcere di Rebibbia, che, insieme alla regista e autrice Francesca Tricarico, attraverso l’esperienza teatrale cerca e scrive la propria identità di donne libere.
Un’avventura, iniziata nel 2013 da un progetto di teatro sociale dell’associazione “Per Ananke” per anni esclusivamente riservato alla sezione maschile, quella della compagnia “Le donne del muro alto” che vede protagoniste sei donne della sezione di massima sicurezza che a breve verrà affiancata da una seconda compagnia di detenute comuni. Un viaggio che le ha portate in occasione della giornata nazionale del teatro (27 marzo) a calcare il palcoscenico del teatro della casa circondariale con la loro “Amleta. Se lei è pazza allora sono pazza anche io”. Uno spettacolo tutto al femminile, in cui Amleto diventa Amleta e indaga le conseguenze della verità, del giudizio, ma ancor prima dell’amore. Un famiglia di donne in cui ci si annulla e si annulla per amore. In cui l’amore può essere molto pericoloso sia per chi lo riceve sia per chi lo dona e in cui la verità è troppo grande per essere accettata, gli affari di famiglia sono più importanti del sentire e il sembrare non lascia spazio all’essere.
Annalisa, Stefania, Teresa, Marianeve e Loredana si alternano in una sorta di metateatro in scena ad Amleta, Gertrude e Ofelia per raccontare, mettendo da parte la ‘maschera’ delle detenute e indossando quella delle attrici, «come il teatro ha stravolto la nostra quotidianità. In uno spazio circoscritto e in un tempo sempre uguale a se stesso, in un solo posto siamo libere davvero, siamo noi senza esserlo: a teatro». Ciascuna col proprio dialetto (napoletano, romano, calabrese), perché quella è «la lingua delle emozioni vere, la lingua della pancia».
Il teatro, quindi, come strumento di ricerca della verità, partendo da sé e andando verso l’esterno. Fuori da quella realtà tutta particolare che è la detenzione e il carcere, «luogo della rieducazione, del viaggio verso il reinserimento nella società, della scoperta di sé, dell’altro e della società stessa. Quale strumento migliore del teatro?», racconta la regista Francesca Tricarico. «Qui in carcere – continua – ho trovato l’urgenza che mi fa riscoprire il vero valore del teatro. C’è una forza in questo luogo che fuori sembra perduta. Sono arrivata qui tramite l’università e alla fine sono rimasta affascinata da questo bisogno forte di dire qualcosa che è il loro ma che indubbiamente appartiene anche a me».
Accanto alla fase laboratoriale, di grande importanza è anche quella della messa in scena. Gli spettacoli finora hanno registrato il tutto esaurito, coinvolgendo ed emozionando un pubblico composto non solo da persone interne alla realtà carceraria ma anche e soprattutto esterni. Un ponte tra il ‘dentro’ e il ‘fuori’ che riporta il carcere e i detenuti nella società favorendo anche la successiva fase del reinserimento e viceversa.
Un progetto portato avanti grazie ai finanziamenti del Garante regionale del Lazio e conclusosi a giugno e che rischia di chiudere i battenti per mancanza di fondi. «In questo momento – commenta Francesca Tricarico – siamo in una situazione un po’ particolare perché non abbiamo fondi ma stiamo cercando di continuare. La direzione ci ha chiesto di ampliare il numero di detenute coinvolte visto i risultati che siamo riuscite ad ottenere. L’urgenza ora è riuscire a raccogliere fondi per portarlo avanti. Ci stiamo provando anche attraverso il crowdfunding». Per informazioni su come sostenere il progetto diventando produttori dello spettacolo e per seguire le avventure de “Le donne del muro alto”, consultare il sito ledonnedelmuroalto.it e la pagina Facebook della compagnia.