Attenta ricostruzione di una tragedia per anni taciuta, “I fantasmi di Portopalo” approda anche in tv. Una miniserie liberamente tratta dall’opera del giornalista Giovanni Maria Bellu per raccontare il naufragio che nella notte di Natale del 1996 causò la morte di 283 migranti, provenienti da Pakistan, India e Sri Lanka. Nonostante il considerevole numero di morti, il dramma è stato nascosto, sotterrato dagli interessi dei pescatori che avrebbero visto danneggiati i propri profitti da eventuali indagini sul territorio: li chiamavano tonni i cadaveri che tiravano su con le reti e che prontamente rigettavano in mare, attenti a non destare sospetti di alcun genere.
E così la F-174, nient’altro che una “carretta del mare” con a bordo circa 300 persone, è colata a picco senza far rumore, e ancor oggi giace inerte sul fondo di un Mediterraneo che nell’ultimo ventennio ha visto la morte di oltre ventimila migranti.
A rompere il silenzio sul “naufragio fantasma” a poche miglia da Portopalo di Capo Passero è stato Salvatore Lupo, pescatore che ha collaborato attivamente alle indagini promosse da Bellu. Impersonato da Beppe Fiorello nella fiction targata Rai, Lupo ha rappresentato un elemento chiave per le inchieste successive al ritrovamento del relitto, rinvenuto a 108 metri di profondità nel giugno del 2001.
Dopo oltre quindici anni dal ritrovamento della F-174, Alessandro Angelini dirige la miniserie prodotta e promossa da Picomedia e Rai Fiction, dietro la sapiente guida di Giuseppe Fiorello che ne ha voluto fortemente la realizzazione: autore del soggetto e della sceneggiatura, nonché protagonista dello sceneggiato, si mostra fermamente convinto della necessità di portare a conoscenza del dramma quante più persone possibili. Al fianco di Beppe recitano personalità del calibro di Giuseppe Battiston e di Roberta Caronia, attrice teatrale in passato coinvolta nei lavori di Albertazzi e Dario Fo: un cast di tutto rispetto per la messinscena di una tragedia che tutt’oggi lascia sgomenta l’Europa intera, mentre le letali traversate non accennano a diminuire.
Ma a prendere parte alla rappresentazione non sono soltanto nomi del cinema o del teatro, c’è anche chi fa capolino sulla scena con alle spalle soltanto i suoi studi e tanta, tanta voglia di conoscere. È il caso di Bagya Lankapura, di origini cingalesi ma nato e cresciuto a Napoli: appena ventenne, Bagya frequenta l’Accademia delle Belle Arti e spera in un futuro da regista. Conosce il Paese dei suoi avi solo attraverso i racconti dei genitori, migrati in Italia in giovane età e stabilitisi nel capoluogo partenopeo ormai da molti anni.
“Il mio è un personaggio fittizio, Fortunato non è mai esistito – racconta Bagya – serve piuttosto a fare da ‹‹ponte››, a partecipare una realtà che oggi è relegata alla cronaca dei tg nazionali.” Sì, perché lasciarsi attraversare dalla voce di una reporter in tv che racconta dell’ennesimo sbarco non è sufficiente per poter conoscere la portata del fenomeno.
Hai lavorato al fianco di grandi attori e la fiction è andata in onda sulla rete nazionale. Cosa significa per un ragazzo di soli vent’anni?
“Beh, questa è stata la mia terza esperienza sul set, la prima in compagnia di personalità del genere. Ho imparato tanto, soprattutto dal punto di vista professionale. Ho compreso il valore del gioco di squadra, l’importanza di una buona intesa e di un’altissima concentrazione in tutte le fasi del lavoro. Naturalmente c’è stato un grande arricchimento anche a livello umano.”
Hai parlato di “gioco di squadra”: com’è stato fare squadra con Beppe Fiorello?
“Emozionante, senza ombra di dubbio. Sia durante le riprese che fuori dal set si è mostrato sempre amichevole e disponibile, ha chiarito ogni mio dubbio e mi ha senz’altro instradato verso la giusta direzione.”
Cosa sapevi dei “nuovi migranti” prima di approdare sul set?
“Nulla, almeno per esperienza diretta. Ho origini cingalesi ma sono nato qui: sia mia madre che mio padre sono venuti in Italia prima che io nascessi e così so quello che mi è stato raccontato, oltre a ciò che si vede nei telegiornali.”
E com’è cambiata adesso la tua percezione del fenomeno?
“Ho avuto modo di capire meglio cosa hanno dovuto affrontare e cosa tuttora affrontano i miei genitori. Sono rimasti in Italia per darmi maggiori opportunità, occasioni che laggiù non avrei mai avuto e naturalmente non deve essere stato facile. Quando potrò vivere dei miei guadagni faranno entrambi ritorno in Sri Lanka: è la loro terra.”
E la tua invece, qual è?
“La mia terra è l’Italia, dove vivo e ho sempre vissuto.”
Cosa significa essere un “migrante di seconda generazione”?
“A Napoli non ho avuto alcun problema, qui non capita spesso che si verifichino atti discriminatori. Mi sono sempre sentito accolto, anche se so che per altri non è stato lo stesso.
La vera difficoltà non è l’emarginazione, ma la ricerca della propria identità culturale: a quattordici o quindici anni cominciamo a chiederci inevitabilmente quale sia la nostra cultura, a chi apparteniamo realmente. È una fase complicata ma che tutti noi figli di emigrati finiamo per attraversare, anche se inconsciamente: potremmo paragonarla ad una sorta di analisi interiore, che ha un inizio e una fine.”
La tua come si è conclusa?
“Ho capito che considerarmi cingalese sarebbe un errore, così come lo sarebbe considerarmi italiano. Potrei provare con italo-cingalese, ma la verità e che non mi serve un’etichetta, non serve a nessuno.”