Di Tonino Cafeo
“Nel nostro ospedale a Kabul piantiamo anche i fiori, nonostante fuori ci siano distruzione e violenza. Anzi, proprio per quello.” Cecilia Strada, trentasette anni, dal 2009 alla guida di Emergency, l’associazione fondata dal padre Gino per occuparsi delle vittime di guerra in tutto il mondo, sa coinvolgere gli studenti di ogni età con il racconto delle esperienze di chi ha deciso di dedicare la sua vita al servizio di chi subisce guerre e povertà sulla propria pelle.
Emergency lavora anche in Italia dal 2006. I suoi ambulatori e le sue “cliniche mobili” (furgoni attrezzati come e meglio di ambulanze) sono presenti là dove le persone, senza distinzione di passaporto, hanno bisogno di cure, da Napoli a Palermo, a Marghera a Castel Volturno. Cecilia è a Messina perché nel prossimo autunno l’associazione conta di aprire un poliambulatorio specialistico anche in riva allo stretto e Renato Accorinti, nel garantire l’appoggio dell’amministrazione da lui guidata all’iniziativa, ha voluto farla conoscere a volontari, studenti e cittadini.
Alla fine di una gremita assemblea a cui hanno partecipato, accanto a Cecilia Strada, anche Nadia Furnari, dell’associazione antimafia Rita Atria , la giornalista Manuela Modica e lo stesso Accorinti, anche Il Carrettinodelleidee ha rivolto qualche domanda alla presidente di Emergency.
Tu e tuo padre girate l’Italia raccontando a giovani e meno giovani cosa significa vivere e lavorare in zona di guerra. Ascoltarvi è come ricevere istantanee di situazioni che rischiamo di dare per scontate senza conoscerle davvero. Da dove vuoi spedirci una cartolina oggi?
Dall’Afghanistan, per esempio. Potrebbe raffigurare quel bambino di sei anni che un giorno si è trovato nel torace un proiettile più grande del suo naso. Noi cose del genere le vediamo tutti i giorni. E’ la tragica realtà della guerra. Quando ho pubblicato sui social questa foto o altre simili è successa una cosa che mi ha molto colpito. La gente non ci credeva. Arrivavano commenti dal tono scettico: “è finta” oppure “Non è possibile” o anche “non si è mai visto qualcosa del genere”. Ma cose del genere sono strane per chi non le ha mai viste, appunto. Per chi è abituato a lavorare in zone di conflitto sono invece la normalità e il problema semmai è cercare di capire come fare a rompere il cerchio della guerra. Eh sì, perché noi francamente siamo anche stufi di curare le vittime. Finché ce ne saranno saremo lì a curarli ma non vorremmo vederne più. Vorremmo poterli chiudere gli ospedali.
Non siete i soli purtroppo a volerli chiudere. Quella stessa opinione pubblica che plaude al lavoro dei medici che lavorano nei paesi in guerra sempre più spesso cambia idea quando le conseguenze dei conflitti – sotto forma di profughi – se le trova in casa. Mi riferisco alle polemiche sui salvataggi in mare e sulle presunte irregolarità nel lavoro di alcune ONG. Emergency come la pensa al riguardo?
Non ci piacciono tutte le generalizzazioni. Oggettivamente oggi c’è un problema: nel Mediterraneo si muore. E muore la gente che tenta di attraversarlo per sopravvivere. Ci vorrà pure qualcuno che si occupi di queste persone, che le raccolga e le salvi da morte certa. Se dà fastidio che questo compito lo svolgano le navi delle Organizzazioni non Governative allora si mandi la Marina Militare.
Emergency, precisiamo, non fa soccorso in mare, ma la sua posizione è molto chiara. La priorità è salvare vite umane. Se ci sono dubbi sulle associazioni umanitarie, ripeto, si facciano intervenire Marina e Guardia Costiera, purché si faccia di tutto per salvare le persone. Il nostro mare, ma nessun mare, può essere un cimitero. Se siamo d’accordo su questo non ci possono essere perplessità su come operare.
Ma voi non vi limitate a intervenire sulle tragedie prodotte dalle guerre. Parte del vostro lavoro è rivolta a prevenirle.
Come direbbe Salvini, noi “li aiutiamo a casa loro”. Da ventitré anni lavoriamo nei paesi da cui fuggono i profughi. Non solo sul terreno sanitario ma anche per costruire le condizioni che garantiscano pace e diritti. Per dare lavoro, istruzione, uguaglianza, accanto alle cure mediche. La nostra esperienza ci dice che quando lavori in questo modo c’è meno gente che ha voglia, anzi, bisogno di scappare dal proprio paese. Detto ciò, “aiutare a casa loro” non è né scontato né facile. Quando “casa” è, per esempio, l’Afghanistan, significa che rischi la vita ogni mattina quando esci per andare a scuola o al lavoro. Se si trattasse dei nostri figli o fratelli e sorelle cosa faremmo? Non ci preoccuperemmo di farli scappare forse? Per questo ciò che ci piacerebbe fare davvero, anzi che dovremmo saper fare, è aggredire alla radice le cause di questo disastro: le guerre, le disuguaglianze, la miseria. Quando questi problemi saranno risolti, sarà bellissimo spostarsi e viaggiare non per necessità ma per scelta. Oggi invece si migra perché si deve, perché non c’è alternativa. Quella delle migrazioni, in definitiva, non è un’emergenza ma un fenomeno strutturale che va affrontato con ragionevolezza occupandosi delle cause che spingono popoli interi alla fuga.
Fra queste cause c’è il commercio delle armi.
Sì, si tratta di uno dei fattori principali che accentuano l’instabilità del mondo. L’Italia è uno dei leader nel commercio delle armi e negli ultimi anni ha aumentato notevolmente le autorizzazioni alla propria industria militare alle esportazioni. Evidentemente non è molto logico riempire il mondo di armi e poi stupirsi se vengono usate, fanno morti e provocano esodi infiniti. E’ di sicuro uno dei punti su cui bisogna lavorare di più.