CHE FINE HA FATTO LA CLASSE OPERAIA?

Mio fratello è entrato in fabbrica a sedici anni. A fine anni ’50 dell’altro secolo, in una cittadina di provincia nata attorno a una fabbrica di armi, di chimica e di meccanica. Non aveva voluto

continuare a studiare, mio fratello. Non capiva cosa doveva farci con quel diploma di avviamento professionale che lo avrebbe portato tutta la vita a lavorare nello stesso reparto, diplomato o no. Tanto valeva cominciare prima a portare soldi a casa. Ha cominciato e non ha più smesso per quarant’anni.

Ne ha viste di tutti i colori, mio fratello. La gloria della produzione industriale a cui tutto si perdonava: gli “incidenti” di un lavoro killer, il mito dello sviluppo tecnologico affidato alle fabbricazioni militari, la vendita clandestina di armi ai paesi “canaglia”, l’avvicendarsi della

proprietà con i buoni auspici delle sovvenzioni statali, l’interramento di rifiuti tossici, l’avvelenamento di terra, acqua, aria. Ha pagato il conto al progresso subendo l’attacco del cancro “ambientale” che è passato come uno tsunami nella nostre case.

Era un operaio professionale, mio fratello. Era orgoglioso del suo lavoro e ne conosceva il valore. Con gli anni era arrivato a dirigere l’andamento del suo reparto senza averne la qualifica. Gli ingegneri freschi di Università si rivolgevano a lui per sapere come risolvere i

problemi. Quando lo racconta si vede che la sa lunga, che nelle mani ha l’intelligenza del mestiere, l’essenziale per aggiustare e far funzionare la realtà materiale di cui ci serviamo e la critica praticata alle liturgie del consumo e dello spreco. Se si fosse trovato a occupare la sua fabbrica, avrebbe saputo cosa fare insieme agli altri come lui, senza bisogno di

capi, capetti e padroni. Sapeva fare e lo faceva bene ma dentro la fabbrica voleva starci solo le ore per portare a casa di che mantenere la famiglia e tenersi le energie per qualche chilometro in bicicletta. O per dare una mano nell’officina dello zio. Non voleva avere un posto di

comando sugli altri operai, soprattutto su quelli più anziani. Diceva che se avesse voluto fare il carabiniere si sarebbe arruolato nell’Arma.

Non ha fatto carriera, mio fratello.

Ha abitato tutta la vita nei pochi metri quadri nel quartiere delle “casette” per gli operai, con gli attrezzi e il banco da lavoro nella baracca in giardino. Se in famiglia c’era qualcosa da aggiustare, si sapeva a chi rivolgersi. Ancora adesso è così.

Tutto il benessere ricavato da una vita di lavoro in due settimane all’anno a fare i fanghi per le sue ossa gualcite, una piccola macchina e gli studi per le figlie. Una inezia per la montagna di profitti prodotti dalle sue mani.

Quando è arrivata l’ora si è imbattuto in uno dei ripetuti attacchi al “privilegio” della pensione. Gli argomenti sempre gli stessi, da parte di chi per mestiere non fa che pensare a come spremere fino all’ultima goccia di sangue chi porta l’intero paese sulle spalle. Era ancora troppo giovane per smettere, dicevano i vampiri che neanche per un giorno hanno provato a vedere se poi otto ore sono davvero poche. Dall’alto di cattedre, di scranni, di posti di comando e di rendite, dicevano che nessuno deve smettere di essere produttivo se ancora può esserlo. E’ un favore per il benessere fisico e mentale continuare a sentirsi parte della

società in continua evoluzione, dicevano e continuano a dire. Insomma lavorare non è vero che stanchi, al contrario mantiene giovani. E quindi, per la buona salute fisica e mentale degli operai, sono stati inventati gli scaloni e le salite sempre più ardite, una specie di fitness retribuito.

Come se lavoro comandato e attività umana fossero la stessa cosa. Mio fratello non la pensava così e diceva che “là dentro” non avrebbe fatto un giorno di più. Sembrava pronto a tutto e mi scappò di bocca, a mo’ di consolazione, che i diritti acquisiti nessuno poteva toccarli. Mi

guardò incredulo e mi invitò ad andare più in là a dire scemenze.

Quella volta gli andò bene e rientrò tra i graziati della schiera dei forzati al benessere del lavoro.