Aeroporto di Fiumicino, Roma. Una fresca mattina invernale. Un accendino e una valigia. Gli aerei in partenza e il consueto popolo di passeggeri e operatori, impiegati e accompagnatori. Dentro la valigia una tanica di benzina incastrata tra i sogni e la disperazione di un ragazzo ivoriano di 19 anni. È un attimo. Il ragazzo apre la valigia, prende la tanica, la svuota su di sé e fa ruotare la rotellina dell’accendino. Il fuoco si muove e brucia, nonostante l’intervento di un poliziotto che ha cercato di impedire che ciò accadesse e per questo si è ustionato un braccio. Quando la schiuma bianca dell’estintore arriva a spegnere le fiamme, il 19enne ivoriano è pieno di ustioni e viene ricoverato in gravi condizioni. Un lampo di luce tragica che spicca nel buio di un Paese in cui la politica, ridotta ai proclami della campagna elettorale, è immobile, indifferente, colpevole.
Un Paese in cui perfino chi ci racconta questa terribile notizia si limita a sottolineare l’intervento dell’agente e soprattutto quello di una funzionaria della polizia di frontiera che hanno fermato il fuoco e probabilmente salvato la vita al giovane, ma non spende nemmeno un rigo per parlare del dramma di chi, dinnanzi alla prospettiva di tornare indietro, preferisce persino uccidersi, cancellarsi, ridursi a cenere. D’altra parte, a chi interessa la vita di un immigrato? A chi importa di un gesto di disperazione contro sé stesso? A pochi. Perché i giornali vendono di più quando la notizia ha per protagonista in negativo un immigrato, di cui si tracciano le abitudini culturali, le caratteristiche etniche che magari si collegano subito al tipo di reato commesso.
Allo stesso modo, la gente sarebbe pronta a fare fiaccolate, a chiedere giustizia, a diffondere la propria improvvisa indignazione verso tutti i cittadini della stessa nazionalità e, per estensione, verso tutti i migranti presenti in Italia. In questo caso, invece, il tragico gesto di un ragazzo non ancora ventenne passa come un lieve soffio di scirocco al Sud, come una scintilla generata da un corto circuito a cui nessuno fa caso. Un fatto isolato, una debolezza, un nonnulla. Non è neppure morto! E non è neppure il primo. E poi è solo un tentato suicidio, senza responsabilità di alcuno. La gente non riflette, non capisce, non si ferma nemmeno un momento a pensare, a scorgere le sagome dei tanti responsabili, che invece ci sono e sono identificabili e conosciuti, perché questo in verità è un tentato omicidio e ci sono le prove e perfino l’arma.
Le fiamme le ha appiccate l’Italia, la fallimentare politica che i governi, di destra e sinistra, hanno applicato in materia di immigrazione, con una maggiore crudeltà a destra, dove la legge Bossi-Fini (che ha aggravato l’impianto già penoso e carente della Turco-Napolitano, per intenderci quella che ha istituito i Cpt), il pacchetto sicurezza e i respingimenti di Berlusconi e Maroni hanno sulla coscienza migliaia di persone tra i morti in mare, nel deserto o nei porti libici e gli schiavi nelle campagne, nei cantieri, nei ristoranti, nelle case. A fornire l’accendino è stata la gente, la paura dell’altro, l’egoismo schifoso di chi è disposto a passare sopra il cadavere di un bambino che galleggia sul mare piuttosto che rinunciare ad un proprio interesse privato, ad una fetta anche esigua del proprio benessere.
Ad offrire la benzina sono stati invece i mass media, gli opinionisti dell’ultima ora, i conduttori di trasmissioni da denuncia penale, i capipopolo alla Grillo o alla Borghezio, che strillano impunemente parole da Ku Klux Klan, i bugiardi di professione, quelli che usano le statistiche e le notizie in funzione di uno stereotipo da spacciare per verità dinnanzi ad un popolo rozzo o che si finge tale per convenienza.
Ecco perché non stupisce che in questa campagna elettorale non ci siano accenni alla questione dei diritti dei migranti: niente sull’abolizione di una legislazione in materia di soggiorno che ci è pure costata diverse sanzioni dall’Unione Europea, niente sull’endemica assenza di una norma che articoli quanto previsto dalla Costituzione in materia di diritto d’asilo, niente sullo sfruttamento diffuso e su strumenti per debellarlo e tutelare le vittime, niente sui ricongiungimenti familiari e niente nemmeno sul riconoscimento del diritto di cittadinanza ai bambini di origine straniera che nascono in Italia, con la sostituzione del principio dello ius sanguinis con quello più giusto e democratico dello ius soli. Niente. Silenzio. Se non fosse per qualche accenno, molto generico e sporadico.
Di concreto nulla. Forse perché difendere i diritti degli immigrati, interessarsi di loro, significa rischiare di perdere il consenso di quella parte del popolo che, soprattutto nel nord-est, usa il proprio razzismo come pedina di scambio elettorale. Una sinistra coraggiosa non arretrerebbe di un millimetro, questa sinistra invece per anni è stata timida, soprattutto ai vertici, perché alla base sono in tanti che, localmente, sono sensibili all’argomento e si battono per l’affermazione di questi diritti dimenticati e sacrificati sull’altare blasfemo del calcolo elettorale. Intanto, c’è chi continua a vivere drammi quotidiani, sofferenze, sentendosi mordere alla gola dall’angoscia di un pezzo di carta che non arriva mai, anche quando ne hai diritto e magari rimani impigliato nei tempi, nei disservizi, nell’atteggiamento spicciolo e meschino di molti uffici immigrazione, dove troppo spesso questa gente è trattata come numeri, come pacchi postali da spedire, magari a calci, fuori dalla propria porta. Che tanto nessuno si incazza.
L’Italia è complice di tutto ciò. Il decreto di espulsione che viene comminato sulla base di una “legge razziale”, spietata, disumana è l’arma su cui sono impresse le impronte digitali degli innumerevoli aspiranti assassini partoriti dalla società italiana, dalla sua classe dirigente, da quella economica e dal popolino. Così, in un Paese simile, può accadere che, nel giorno di San Valentino, mentre l’amore a forma di cuore viene trasformato in merce di ogni tipo e nella consueta, ottusa frenesia consumista, un giovane ivoriano decide di rinunciare ai propri sogni strappati da un pezzo di carta con un bollo freddo e sterile, senza urlare, senza dir nulla, senza chiedere l’ascolto e l’amore di cui avrebbe bisogno e che questo Stato gli ha negato. Ha difeso la sua dignità, con un atto di sfinimento, di stanchezza. Una dignità che adesso giace, bendata, in un letto di ospedale, mentre fuori il vento ha spazzato via le fiamme e il buio ha proseguito il suo cammino indifferente.
Massimiliano Perna