Se il Mare Nostrum si è ormai ridotto a freddo sepolcro di migliaia di anime in fuga, non tutti i rifugiati scelgono di attraversare l’incerto Canale di Sicilia. C’è chi, imbracciando un bagaglio di ricordi, paure e poche vettovaglie, intraprende un cammino diverso ma altrettanto difficoltoso: un numero sempre maggiore di profughi tenta di raggiugere la Grecia partendo dalle coste della Turchia, con l’intenzione di proseguire verso l’Europa Centrale e Settentrionale. La “traversata dei Balcani”, in apparenza un’alternativa meno rischiosa e sempre più praticata cela insidie e disagi, primo fra tutti la drammatica chiusura delle frontiere: centinaia di persone bloccate al confine fra Macedonia e Grecia, a pochi passi da un’Europa dal volto inumano che ama trincerarsi dietro chilometri di filo spinato, non possono che aspettare. La carenza di cibo ed acqua, il succedersi dei rigidi inverni e l’incremento delle “misure di sicurezza” hanno fatto sì che molti fra loro capitolassero.
Ad una morte annunciata hanno preferito la propria casa, e così hanno fatto marcia indietro. “Avevano ultimato le loro risorse, consumato anche l’ultimo sorso d’acqua: non restava che far ritorno, sono stati costretti ad arrendersi”.
Così riferisce Enzo Infantino, attivamente impegnato in frequenti missioni umanitarie, nate per rendere tollerabile questa impossibile attesa. “Lo scorso anno ad Idomeni c’erano ben sedicimila siriani, bloccati alle porte della Macedonia, le condizioni erano pessime, al limite della sopravvivenza. Adesso Idomeni ha chiuso i battenti e al suo posto sorgono dei campi governativi, a norma di legge ma non per questo vivibili.” Idomeni era un campo spontaneo, nato dall’iniziativa delle centinaia di curdo-siriani cui veniva impedito di oltrepassare il confine: il più grande campo profughi d’Europa, una giungla di tende e lenzuola umide, fanghiglia e coperte stracciate. Evacuato nel 2016 e prontamente sostituito da accampamenti non dissimili nei pressi di Salonicco, Idomeni ha consentito ad Infantino di vivere a fianco di chi non aveva altro che sé stesso. “All’inizio anche io ero da solo, ma la cosa non mi ha spaventato – spiega Enzo – Ho conosciuto molta gente, sono nati rapporti meravigliosi, indimenticabili. Poi è arrivata anche la collaborazione: sono stato affiancato da un numero sempre maggiore di persone e questo mi ha consentito di dar vita ad una vera e propria rete di solidarietà, a partire dalla mia Calabria.”
Ma per Infantino non si è trattato del primo contatto con il mondo dei migranti, il suo primo viaggio risale al 2003, in Libano.
“Ho sempre desiderato poter fare qualcosa che promuovesse i diritti umani, anche quando ero soltanto uno studente. Sono partito non appena ne ho avuto l’occasione e il Libano non è stata una meta casuale: la strage di Beirut del 16 Settembre 1982 mi ha colpito al punto tale da rendere questo viaggio quasi necessario e tuttora vi faccio ritorno ogni volta che posso.”
Ma per Infantino non basta raggiungere i rifugiati e portar loro ciò di cui necessitano, bisogna sensibilizzare le coscienze con continue denunce, anche qui in Italia. Gli aiuti umanitari non sono abbastanza affinché un giorno tutto possa giungere a felice risoluzione. “Oggi in Grecia sono circa sessantamila i rifugiati “bloccati”, i campi sono allestiti all’interno di vecchi capannoni industriali o, ancor peggio, all’aperto. L’Europa Settentrionale per ragioni di politica interna non è disposta ad accogliere i migranti e affinché i rifugiati rimangano al di là del confine la Turchia viene pagata circa tre miliardi di euro.” Infantino elargisce informazioni, rende partecipe la popolazione di quanto sta accadendo, sperando in una mobilitazione o quantomeno in una più attiva partecipazione alla causa. “Si tratta di persone, persone in grado di arricchire la vita di ciascuno di noi. Basti pensare a Kajin, bimba nata all’interno di un campo profughi che il padre spera possa studiare architettura – Vorrei tornasse in Siria per contribuire a ricostruire il Paese – mi ha riferito l’uomo, quasi sorridendo. Non sono cose che si dimenticano e non è l’unica storia che potrei raccontare.” Già, perché ognuno di loro ha una storia da raccontare, basterebbe solo imparare ad ascoltare.