Da Cosa Nostra a Cosa Grigia

 

La zona grigia “oltre” Cosa Nostra e l’ombrello dell’antimafia, il metodo Falcone e la favola clamorosamente smentita dai fatti di Messina provincia babba. Questi gli argomenti chiave trattati ieri nell’aula magna del Dipartimento SEAM dell’Università di Messina, dove si è svolto il seminario sul giornalismo antimafia intitolato «La linea della palma… Da Cosa Nostra a Cosa Grigia», promosso dalla testata Ilcarrettinodelleidee in collaborazione con l’Ordine dei giornalisti e moderato dalla nostra collaboratrice Claudia Benassai. A fare gli onori di casa il prorettore con delega alla comunicazione Marco Centorrino, che si è detto compiaciuto di questi importanti momenti di incontro e confronto tra l’ateneo ed il mondo dell’informazione: «Parlare seriamente e con cognizione di causa di legalità nelle aule universitarie – ha affermato il docente dell’ateneo peloritano – , al pari di ogni altro luogo di formazione, rappresenta un passo in avanti per l’intera società».

Ospite d’eccezione il giornalista trapanese Giacomo Di Girolamo, autore del libro “Da Cosa nostra a Cosa grigia”, che si è raccontato liberamente alla platea composta da giornalisti o aspiranti tali, studenti universitari e curiosi, spiazzando subito i presenti. «Dobbiamo confrontarci con la morte della storia. Non è più possibile raccontare la storia considerati i tempi e le tempistiche moderne. Siamo letteralmente travolti dai fatti, tanto da finire per subire l’informazione, soprattutto attraverso i social network. O l’amico che lo ha letto su un blog». Il ruolo del giornalista in un ambiente 2.0 è quindi sempre più complesso: come scegliere cosa raccontare, come accontentare un pubblico che ha bisogno di velocità e la cui attenzione – ed interesse – calano drasticamente trascorsi te minuti? Come rendere la “giusta” dimensione a notizie assai differenti, come l politica internazionale e la protezione animali? In un contesto in cui non esistono più verità, perché tutto è verità, rischia di scomparire, se già non è successo, l’opinione pubblica. «Il giornalismo locale – confessa Di Girolamo – risente maggiormente di questa crisi di riferimenti, estremamente fragile anche dal punto di vista contrattuale, rischia di essere travolto dalla polverizzazione delle notizie. Da questa riflessione, è nato un nuovo appellativo. Quello di giornalista residente, cioè un professionista che fa giornalismo di provincia senza essere provinciale. Questo cerco di essere ogni giorno. Un professionista che racconta i fatti, che studia i documenti e che riesce a capire cosa rimanere dopo aver “scavato” oltre tutte le parole già scritte».

Ben presto si entra nel vivo della tematica oggetto del seminario organizzato dalla nostra testata, analizzando le profonde trasformazioni del fenomeno mafioso all’indomani della stagione stragiste e della guerra di Stato contro le mafie. «In Sicilia con la latitanza di Matteo Messina Denaro viene meno l’ultimo grande boss, in grado di controllare ed influenzare la struttura. Cosa nostra, però, non ha smesso di esistere, ma si è soltanto adeguata ai tempi e si è trasformata. In Cosa grigia. Si tratta di quella vecchia zona grigia che esisteva attorno alla mafia e con lei intratteneva rapporti di convenienza reciproca. Imprenditori, funzionari, politici: coloro che prima chiedevano, oggi gestiscono, diventando sistema. Perché il fenomeno più preoccupante, oggi, non è l’illegalità, ma il modo illegale con cui viene esercitato il potere legale».  Insomma, oggi i mafiosi non hanno odore – la puzza di stallatico, ricordata da chi li ha avuti accanto, anche se per poco -, non sono più organizzati per territorio, ma per competenza, non esiste più la classica gerarchia né un padrino. La mafia oggi non spara e non tratta con lo Stato. Non ruba, perché fa in modo di procurarsi le risorse truffando anche l’Unione Europea.

«Mentre Cosa Nostra rimane prigioniera del calcestruzzo, della droga e dell’estorsione, Cosa grigia si evolve ed espande i propri interessi, così come i ritorni economici». Se è vero che la mafia è cambiata e continua a cambiare, il mondo dell’informazione fa fatica ad adeguarsi, continuando ad utilizzare solo una parte del fenomeno per descriverlo tutto, mettendo in evidenza un proprio grosso limite. Ma in un questo quadro in continua evoluzione, anche la cosiddetta antimafia sembra essere rimasta indietro, legata ancora al sistema del 1992. «L’antimafia oggi è potere, è un ombrello che dà riparo a tutti – esclama con freddezza Di Girolamo -. Anch’io sono definito giornalista antimafia, come se fosse il marchio DOP di una mozzarella. Per anni chi scriveva di mafia è stato considerato un giornalista resistente, ma la vera sfida sta nel parlare di questo fenomeno perché semplicemente esso esiste nella propria realtà. Di fronte al pubblico in cui vengo spesso chiamato ad intervenire – poveri studenti guidati dalla professoressa “che fa antimafia” – insieme ai colleghi dell’antimafia, mi sento parte di un cast. O di un circo. E penso che rischiamo di diventare – o forse lo siamo già – vittime dei nostri stessi personaggi. Come se l’antimafia fosse un dovere di etichetta».

Una testimonianza di pregio è inoltre stata portata dal tenente colonnello Letterio Romeo, da un anno alla guida della DIA di Messina, che si è soffermato sulle tecniche di indagine ed il cosiddetto “metodo Falcone”. «Le novità introdotte da Falcone nei metodi investigativi sono state significative – racconta Romeo – : dal pool, che evita la personalizzazione dell’azione e garantisce continuità, alla costituzione di strutture specifiche delle forze dell’ordine, la persecuzione dell’attività criminosa nel suo complesso – non più singoli reati -, colpendo anche la vocazione internazionale della mafia. Se alcuni strumenti, come gli accertamenti bancari, sono ancora utilizzati, altri vengono trattati con cautela. Le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, ad esempio, sono state fondamentali per conoscere le dinamiche interne alle organizzazioni mafiose degli anni novanta, oggi devono essere attentamente vagliate e verificate tramite l’indagine. L’utilizzo intensivo delle intercettazioni telefoniche ed ambientali, di particolari banche dati ed i duri colpi inferti al potere economico mafioso attraverso la confisca dei beni e patrimonio frutto di illeciti, rappresentano i principali caratteri dell’attuale attività delle direzioni investigative antimafia».

Il seminario si è concluso con l’intervento del giornalista di cronaca giudiziaria della Gazzetta del Sud, Nuccio Anselmo, che ha attentamente analizzato la storia della mafia messinese, evidenziando i limiti – e forse anche i danni – di una cieca opposizione all’affermazione di una realtà di fatto. Perché quando il pentito Tommaso Buscetta escluse dalla graduatoria della mafiosità delle province siciliane proprio quella messinese, nacque la favola della “provincia babba”. Una favola, appunto. «Già a partire dalla metà degli anni Sessanta – racconta Anselmo – sporadiche voci anno affermato l’esistenza di un interesse da parte di Cosa Nostra al territorio messinese, importante zona cuscinetto tra la mafia catanese e palermitana e la ndrangheta calabrese. Un elemento che però i numerosi osservatori hanno sempre ignorato, classificando Messina – e Siracusa – come territori immuni e non assoggettabili al fenomeno per evidenti motivazioni storiche, etniche ed antropologiche». Una realtà negata anche di fronte al primo rapporto dei Carabinieri relativo ad una attività criminale e risalente alla metà degli anni Settanta. «Mentre si continuava ad ignorare la portata del fenomeno mafioso a Messina – continua Nuccio Anselmo –  nel 1983 si registrò la prima applicazione del reato di associazione mafiosa, successivamente confermata in primo grado dal tribunale. Tutto rovesciato in appello. E sorte ben peggiore toccò al primo maxiprocesso del 1986. Gli imputati alla sbarra erano 286, di cui 163 furono assolti per non aver commesso il fatto ed altri 17 per insufficienza di prove. L’omicidio dell’avvocato Nino D’Uva scosse la città ed influenzò probabilmente anche quell’importante processo. Da lì in poi, si perse il controllo del fenomeno mafioso nel centro peloritano. Gli omicidi di mafia passarono dagli 8 del 1986 ai 47 del 1992. In barba alla definizione di provincia babba. Oggi l’organizzazione mafiosa non è più così strutturata in città, dove prevale il clan di Mangialupi dopo la polverizzazione di quelli di Giostra, decimati da scontri ed operazioni di polizia. Mentre ancora forte è l’organizzazione nella provincia, in particolare a Barcellona Pozzo di Gotto. Dopo le numerose operazioni Gotha e Pozzo, il recente pentimento di Carmelo D’Amico potrebbe portare a novità clamorose. Rotto il muro di omertà, anche episodi dati per assodati potrebbero aprire a verità diverse da quelle processuali. Come ad esempio l’omicidio del giornalista barcellonese Beppe Alfano». Alba Marino