Desperados esperamos todavia

Dialogo con Vincenzo Consolo sul secolo e mezzo di un’Italia malata

Non ci avevo fatto caso fino a quando non avevo voltato la pagina, qualche attimo prima di chiudere. Era finito, il Moleskine, e girare quella pagina mi aveva colpito. Ancora di più mi colpì chiuderlo dopo l’ultima frase catturata all’altro capo del telefono: “Desperados esperamos todavia”. Do sempre importanza alla fine delle cose, e magari di più se quello che finisce non ha un peso nell’economia dell’universo mondo, e nella mia vita. La naturalezza dell’eccezionale mi da un senso di estraneità col pianeta, piacevole. Come l’attimo della massima sospensione in aria dopo il salto da un trampolino. Quando Vincenzo Consolo tirò fuori la poesia spagnola per chiudere il breve dialogo sul secolo e mezzo che l’Italia si appresta a scollinare, quell’attimo durò un po’ di più. Era già un bel traguardo chiudere quel blocco d’appunti con le tracce di una discussione con una delle menti più raffinate che hanno attraversato la storia recente del bel Paese, e ancora di più sentir dire che “disperati, speriamo tuttavia”. Non che ci fosse stato un leitmotiv positivo sotto le parole dello scrittore, anzi: l’amarezza ha fatto da basso continuo, come in mezzo alle pietre di Pantalica. Come la sua voce, dal tono quasi baritonale, calma e incredibilmente seducente. Parlando del passato dell’Italia, ascoltando la memoria aprirsi sui ricordi dei dialoghi con Sciascia o Lucio Piccolo, c’era da saziare la fame scatenata dalla società televisiva dell’era del biscione tricolore. Parlare d’un tema così enorme come la celebrazione dei 150 anni dell’unità d’Italia, un tema che mescola la storia all’analisi sociale, l’arte alla tecnologia, la scienza allo sport, spinge a sapere se chi ha vissuto il paese in una forma così viscerale, così stretta ai fatti (in quel sorriso del marinaio l’inchiostro continua a vibrare), conserva una luce, una possibilità. Quella citazione che viene lontano dall’Italia è un soffio d’aria pulita, anche se tirata fuori dal buio delle stesse parole che descrivono una notte senza luna, perché la luna è caduta. Anche se avevamo aperto le riflessioni sullo stato delle cose così come sono: “È perduto il senso della giustizia, il senso dei valori che fanno parte della carta costituzionale – spiegava da Milano lo scrittore. Sa, già Leopardi diceva che l’Italia non ha un senso civico”. Eppure la bontà di certe azioni che hanno fatto Italia e italiani sta dentro le pagine di storia: “Certamente l’unità è frutto dei maggiori spiriti italiani, del coraggio di molti. Voglio ricordare a questo attimo di storia che molti garibaldini imbarcati a Quarto erano lombardi, bergamaschi e bresciani. In Sicilia, a Calatafimi, c’è un monumento che si chiama “Pianto Romano” che contiene il senso dell’unità”. Ragionammo sul fatto che quell’unità oggi sembra perdere pezzi: “Le lettere dei condannati a morte nei giorni in cui si faceva l’Italia portano nomi di autori giovanissimi, della stessa età dei ragazzi che oggi non sanno nulla di quel sangue, non sanno nulla di quegli ideali. I ragazzi di una generazione irriconoscibile di fronte l’Italia. Eppure è così. Oggi in questo paese viviamo una vera e propria minaccia quotidiana, la Lega Nord. Quando per la prima volta la Lega si presentò alle elezioni di Milano (e all’opposizione c’era Nando Dalla Chiesa) scrissi sul Corriere della Sera che sarebbe stata un male. Scrissi contro la Lega, eppure mi vennero tutti addosso, a partire da Giorgio Bocca. Io però sapevo cos’era la Lega. Avevo già vissuto in Sicilia l’avvento dei movimenti centrifughi: sapevo cosa avrebbe significato nel tempo un partito come quello di Bossi”. Lo spostamento del dialogo sul versante politico ci portò a riflettere sulla situazione attuale, a partire da inevitabili considerazioni sulle donne: “Beh, pochi riflettono sul fatto, ad esempio, che anche le donne hanno partecipato alle battaglie: è accaduto pure fra i garibaldini, con Giuseppina Bolognari, detta ‘Peppa la Cannoniera’, che combatté a Catania. Fanno fatica già le importanti figure femminili storiche a farsi strada, figuriamoci quelle di oggi. Oggi stiamo a guardare questa Ruby e le altre ragazze spinte dalle madri a vendere il corpo per una gloria veloce. Siamo costretti a questi spettacoli e a vedere le donne coscienti della propria dignità costrette a scendere in piazza per non far perdere al paese il senso delle cose”. Viaggiando sulla deriva dello Stivale ci spostammo al Sud, nella terra sua e di quanti sono continuamente costretti ad abbandonarla, dei talenti che vanno al Nord: “È innegabile che la tendenza ad andare via c’è sempre stata. C’è stato un Viceré di Sicilia, un Emanuele Filiberto che non ha nulla a che fare con l’indegno erede che oggi si fregia del suo nome, che portò con sé a Torino dall’Isola un gruppo eccezionale di intellettuali, tra i quali un architetto straordinario che realizzò nella città dei Savoia delle opere di una bellezza assoluta e indiscutibile, dalla Basilica di Superga alla Palazzina di Caccia di Stupinigi. Filippo Juvarra era messinese e dalla Sicilia andò via. Come anche i migranti dopo la rivolta del 1848-49. Era il periodo in cui Michele Amari in Francia portava avanti gli studi di arabo per realizzare poi uno scritto meraviglioso. Potremmo citare anche Verga, che visse fra Firenze e Milano e portò con sé scrittori come Capuana. Verga diceva che la lontananza aiuta a vedere meglio i luoghi che si lasciano”. Nel parlare delle esperienze di “lontananza” di altri scrittori invitai Consolo a descrivermi la propria, e lo scrittore esordì con un “purtroppo” pieno di significati, gli stessi che attraversano i suoi scritti: “Purtroppo – disse – è capitato a me di andare via per non scendere a patti. Era in attesa di avere il posto da insegnante, e il padre di un onorevole dell’epoca mi disse, testualmente: «Tu ti devi cercare un santo protettore. Non cercai santi. Insegnai per un po’ in alcuni paesini, a Mistretta, a Caronia… Lo feci per cinque anni, poi decisi di andare via. Ricordo che mi consigliai con Lucio Piccolo e Leonardo Sciascia. Piccolo mi suggerì di resistere, mi disse: «Non vada via, non vada perché quando si è lontani dai centri culturali non si ha più fascino…». Sciascia, invece, mi confessò che se avesse avuto la mia età sarebbe andato via. Ricordo il lunghissimo viaggio in treno verso Milano, una notte del 1968. Quella di oggi non è la stessa Milano. Non la riconosco più. Si vive freneticamente, non c’è il gusto delle cose. Non è più quella Milano, non è più quell’Italia”. Nel descrivere la sua vita da pendolare, Consolo mi spiegò che “quando si scrive non ci si allontana mai dai luoghi della propria memoria”. Poi però sottolineò quanto è difficile vivere e scrivere nel paese di quelli che chiama “telestupefatti”: “È un termine che ho coniato pensando a chi vive nutrendosi della televisione così come ci è offerta da questo Paese. Lei sa che non c’è alcun esempio, almeno in Europa, di un così enorme conflitto di interessi. Mi è capitato di scrivere diverse volte di questa situazione che va oltre il possibile, e un intellettuale francese ha anche ripreso il termine che ho coniato per descrivere oltralpe la vicenda”. Scambiandoci veloci battute sull’attuale situazione politica che attraversa quest’Italia che ha compiuto centocinquanta, le parole tornarono a posarsi sulla Lega Nord: “Questi leghisti che calpestano la memoria del Paese, la storia e il presente, mi ricordano soggetti lombrosiani – spiegò lo scrittore con una voce che parve caricarsi ancor di più d’amarezza. Direi che al razzismo bisognerebbe rispondere con una forma di razzismo diverso”. Già, magari una forma di razzismo capace di far riconoscere l’errore a chi lo commette. Tirare in ballo il Lombroso, con la sua teoria fisica dei portatori di malvagità dalle grandi mandibole, gli zigomi sporgenti, gli incisivi sviluppati, fu una considerazione forte nata probabilmente da una reazione alla violenza verbale generata da un modo di pensare che ha poco a che fare con la benevolenza verso il prossimo. Qualsiasi prossimo. Le sovrastrutture montate negli anni dalla Lega sono avamposti di disgregazione sociali non indifferenti. Sono i semi che portano allo sviluppo di situazioni surreali come quelle alle quali siamo costretti a fare da spettatori nelle serate televisive che spingono nelle case il dibattito politico: “Ha presente gli ocoparlanti? Quelli di Orwell? Ecco, ci troviamo ad assistere quotidianamente a dibattiti urlati, dove chi parla si trova nella condizione di pronunciare parole senza che la lingua sia collegata al cervello”. Più d’una volta Consolo tirò fuori l’esempio degli ocoparlanti orwelliani, probabilmente sempre per lo stesso senso di saturazione nei confronti di questa società febbricitante, malata di favoritismi conditi al bunga bunga. È questa l’Italia del centocinquantesimo, bisogna prenderne atto. Ma non perdere la speranza. Quando gli chiesi, prima di chiudere il Moleskine, se in qualche modo fosse riuscito a conservare una forma di fiducia per il futuro, lo scrittore portò le memorie fuori dallo Stivale, nella Spagna di Machado, tirando fuori quella speranza, nascosta dietro la disperazione, che in italiano difficilmente si riesce a pronunciare. Il mio Moleskine finì lì.

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