Dialettica dell’Illuminismo ed altre storie

Del mondo com’è adesso, come s’è andato sviluppando negli ultimi sessant’anni, già tutto era stato detto fin dal 1946 da Horkheimer e Adorno nei frammenti filosofici di Dialettica dell’Illuminismo. Ma l’impressione è che noi occidentali, europei ed americani insieme, si sia preso molto sottogamba  l’avvertimento dei due di Francoforte, che ci avvertivano che nella terra della ragione illuminata brillava (brilla) un sole di sventura.

Dialettica dell’Illuminismo: la stessa che molti hanno creduto di scorgere nel corso di tutto l’arco della rivoluzione francese, che dell’Illuminismo dopotutto è figlia. (O preferiamo credere che la rivoluzione finisca nel Terrore non in base a una sua logica  -pardon, dialettica – endogena o genetica ma solo perchè è scappata di mani ai giacobini?). Credo che una buona parte dell’eredità dell’Illuminismo risieda in questo tipo di domande. Ma noi sappiamo che l’Illuminismo comunque resta per noi una premessa necessaria ed irrinunciabile, anche se – nel momento in cui lo dichiariamo come principio etico e nella prassi – non possiamo non prendere atto dei suoi limiti e delle sue contraddizioni.

Se mi si chiedesse che cosa significa per me essere dalla parte dell’Illuminismo, risponderei parafrasando Benedetto Croce (e me ne scuso, perchè lui era invece un liberale puro, e fino al midollo delle ossa): non mi è possibile non esserlo. Ma esserlo comporta fare i conti con la nostra storia, anche quella personale. E sono conti che richiedono verifiche impietose e confronti dolorosi. Perchè c’è sempre un grano di giacobinismo in noi, di rigidità etica, forse addirittura di intolleranza. Dichiaro però che a queste “terribili” qualità io non potrei rinunciare: credo si possa perdere tutto nella vita ma non la speranza, pena la disperazione, che è appunto la condizione che si verifica con la perdita della speranza, e spesso della ragione. Perchè la tolleranza, la duttilità e il compromesso sono caratteristiche proprie dei liberali e dei liberisti, tra i quali ultimi primeggiano per visibilità e per improponibili dinamiche palìndrome – “con cravatte intonate alla camicia”, cantava Gaber  – i postcomunisti:  sgomberato il loro passato senza uno straccio di autocritica o di riflessione autenticamente laica, senza averci fatto i conti, hanno riempito il loro nuovo vuoto con ben incasellate formulette “liberal” – o, peggio – liberiste.

Costoro sono i primi responsabili  della nascita politica del mostruoso fenomeno Berlusconi e dell’affermazione del berlusconismo inteso come metodo di governo illiberale, di natura populistica, corruttore delle coscienze, formatore di un “pensiero” unico, acritico, teledipendente, totalmente plasmabile. Sono costoro, i postcomunisti che – assorbiti in una ventennale estasi mistica – non hanno saputo comprendere che la “cultura” dell’uomo di Arcore (e dei suoi scherani più o meno diversamente alti e diversamente magri) non era e non è compatibile con lo statuto ontologico di un sistema  democratico occidentale. Perché in una democrazia, senza aggettivazioni, che si voglia definire tale, le forze politiche che si contrappongono, prima ancora della divisione in fazioni politiche, devono condividere tutta una serie di valori di base che devono fare parte di un comune patrimonio storico, umanistico, civile, etico.

Sennò, di che cosa parliamo? Rectius, sennò continuiamo ad ascoltare e a vivere sulla nostra pelle le oscene blasfemìe che sono state imposte al Paese negli ultimi vent’anni?

Meno male che nel frattempo è arrivato papa Francesco. Io, ateo, non credente, al di là della sua autorevolezza come Capo della Chiesa, penso che papa Francesco, homo faber, potrebbe essere un fattore di accelerazione di una presa di coscienza laica e repubblicana di un popolo sbandato e impoverito, immiserito economicamente, civilmente ed eticamente. Ben venga, questo grande uomo di Chiesa a cui io riconosco la grandezza morale, l’etica, la pragmaticità e la visione del bene pubblico del grande Uomo di Stato. Mi ricorda il Galileo di Brecht quando, rivolgendosi ai suoi amici e discepoli, dice : “… Per le nuove idee, quella che ci serve è la gente che lavora con le mani: agli altri non interessa conoscere l’origine delle cose. Quelli che vedono il pane solo quand’è sulla tavola, non vogliono sapere com’è stato cotto: canaglie, preferiscono ringraziare Dio piuttosto che il fornaio! Ma quelli che il pane lo fanno, quelli sapranno capire che niente si muove da sé…”.