Come al solito l’incontro è casuale come è casuale lo stare ad ascoltare una storia, l’ennesima storia, diversa e uguale.
Questa volta tocca a Giorgio, 29 anni di Reggio Calabria.
Da qualche giorno faccio la spola con Taormina, mi reco al locale ospedale per mansioni professionali, devo documentare fotograficamente dei reperti istologici, tumori, per un convegno.
Non è facile, ogni reperto che mi viene affidato mi riporta a ricordi personali; non posso fare a meno di pensare se la natura di quel “coso” sia uguale o similare a quello di mia madre o di Anna o di Cettina o…, ho bisogno di distrarmi continuamente e così vado spesso al bar interno all’ospedale.
Qui incontro tanta gente che evito con attenta puntualità, non voglio incontrare i loro sguardi, i loro pensieri, le loro storie; ho già dato.
Resto invece turbato da un giovane; alto, magro, di una magrezza esaltata da una camicia hawaiana troppo larga per il suo fisico provato, troppo esuberante per l’ambiente in cui ci troviamo, sembra che quel ragazzo attraverso l’abbigliamento voglia rifuggire l’esperienza che lo tormenta.
Ci ritroviamo ambedue in piedi davanti allo stesso tavolo, l’unico libero, con l’intenzione di consumare comodamente la nostra granita, lo invito a sedersi con me, restiamo a lungo con gli occhi bassi concentrati sulle nostre brioches poi è lui a prendere per primo la parola attratto dalla mia attrezzatura fotografica e senza staccare lo sguardo da essa mi dice: “sei venuto a fare un reportage estremo”?
Non voglio rispondere.
Temporeggio qualche secondo e poi tiro fuori una mia precedente esperienza in quei reparti, una storia di parrucche e centro di bellezza spacciandola come attuale, si discute quindi di questo mio servizio sino a quando, parlando nello specifico di alcuni medici di nostra conoscenza Giorgio mi affronta con una frase: “Tu sembri ben informato su quanto si vive in questi reparti”. Vorrei non rispondergli, vorrei potermi alzare e andare via come se non lo avessi mai conosciuto, come se non fosse lì a guardarmi con quegli occhi troppo grandi per quel viso provato, troppo azzurri in contrasto col colorito olivastro tendente al giallo.
Ci lasciamo per raggiungere ognuno i propri impegni, a testa bassa salutandoci in maniera schiva.
Non ho voglia di tornare a casa, i profumi di Taormina oggi sono particolarmente intensi e fanno da compendio ad una giornata dai colori freschi e prepotenti, parcheggio al “Lumbi”, è da troppo tempo che non mi concedo uno spazio di intimità fra me e il corso Umberto, la prima tappa è un obbligo; un buon bicchiere di Blandano freddo bevuto con gli amici dell’Isabella, incontro qualche vecchio amico; ritrovo un po’ del mio vecchio essere.
Mi fermo a oziare in piazza XXI Aprile (San Pancrazio per i locali), un altro Blandano mi fa compagnia, sento di stare bene
Da lontano vedo arrivare Giorgio, è allegro, ride sonoramente con due altri ragazzi, è alto magro e la sua ampia camicia sembra quasi una vela a festa montata su un pennone troppo esile per contenerne la gioia.
lo chiamo con ampi gesti della mano mentre si avvicina e lo invito a sedere, i suoi amici occasionali proseguono la passeggiata lui si siede, non può assumere alcoolici dopo la terapia e quindi si “consola” con una mega coppa di gelato.
Mi chiede di me, del mio lavoro ma poi finisce per parlarmi di lui, lo fa in sottovoce quasi fosse una impersonale confessione.
“Questa mattina sono andato a fare il ciclo (chemio), oramai sono abituato a queste situazioni, mi sento un po’ stanco ma poi passa, è bello che l’ospedale sia a Taormina mi dà l’opportunità di rilassarmi e di riprendere le forze.
Non è facile rimettersi in macchina per tornare a Reggio, non è il viaggio a intimorire quanto il rientrare nel mio ambiente quotidiano”.
All’improvviso si zittisce.
Continuo io chiedendo: ma avrai impegni, amici? Magari un ragazza
“E’ proprio questo il punto, la malattia nostra ci colpisce più negli affetti che nel corpo”
Non comprendo o forse mi rifiuto.
“La malattia ti toglie le forze ma tu sai che torneranno, perdi i capelli e sai che ricresceranno, ma quello che ti fa più male è vedere che i tuoi affetti più cari si allontanano da te; gli amici, la ragazza che frequentavi i tuoi colleghi di lavoro, non ti cercano più, non ti chiamano fanno in modo di non incontrarti.
Io li comprendo hanno paura di doversi assumere degli impegni, impegni troppo grandi troppo gravosi, non sanno cosa dirti come comportarsi e quindi fuggono!”.
“Vorrei dire loro che per me è importante il saluto, non chiedo tanto, non voglio che cambino le loro abitudini per me, li capisco.
Frequentare i soliti luoghi e sentirmi solo è la parte peggiore della malattia, la mancanza di rapporti sociali uccide più del cancro.
Su facebook ricevo tanta solidarietà anche da persone del mio quartiere, su facebook riesco ad avere dialoghi appaganti ma solo sul virtuale, nella vita reale è tutt’altra cosa, la gente preferisce non entrare troppo in confidenza con te, non sa cosa dire e preferisce non farlo.
C’è anche molta ignoranza e tanti pregiudizi sulla mia malattia (mi confessa che si tratta di un cancro al colon), non frequento più il bar vicino casa mia, quello che mi ha visto crescere, perché da qualche giorno a me le consumazioni, anche il caffè caldo, le porgono nel bicchiere di plastica”.
Non riesco a commentare, è lui che ancora una volta mi aiuta ad uscire dall’impasse, “devo andare ciao” e si approssima alla cassa, dopo una simpatica battaglia per appropriarsi dello scontrino mi saluta con una inaspettata forte stretta di mano, gli lascio il mio biglietto.
Ci sentiamo spesso, oggi è passato da Messina e ci siamo incontrati per un caffè, mi ha coinvolto nel racconto di aneddoti esilaranti.
Prima di andare mi ha chiesto di pubblicare del nostro incontro taorminese e così lo faccio ma non è casuale
Dino Sturiale