Da anni ormai si parla di federalismo e della necessità di modificare il nostro Paese in senso federale. E’ una conferma che la nostra democrazia dispone di ampia libertà di parola ma non di altrettanta capacità di pensiero.
Non mi dilungherò sulla considerazione – che non mi pare di aver udito da alcuno – che, come insegna la storia della Germania, della Svizzera e degli Stati Uniti d’America, è possibile federare tra loro unità statuali diverse e non già trasformare uno Stato unitario in una federazione di regioni, provincie e comuni. In una società che sembra aver perso la capacità di comprendere e difendere il significato delle parole, questo argomento (“il re è nudo!”) probabilmente passerebbe per una sofisticheria di tipo semantico. Mi sembra però utile (o forse soltanto onesto? quindi rivoluzionario?) avanzare il legittimo sospetto che il federalismo sia stato, e sia tuttora, un strumento coerente e perfino politicamente intelligente, pensato da menti neppure tanto raffinate, perché gli onnipresenti e spesso inconsapevoli “utili idioti” (diceva Churchill che dentro ogni minoranza intelligente pascola un maggioranza di imbecilli) lo facessero proprio e lo portassero avanti come mezzo di affermazione del principio di sussidiarietà. Perché federalismo e sussidiarietà vanno a braccetto, sono l’uno la stampella dell’altra o, per dirla in altro modo, non può esserci uno senza l’altra.
Le moderne società occidentali, che si dicono democratiche ma che di democratico hanno solo le forme (nel caso del nostro Paese, le profonde ed apparentemente insanabili sperequazioni sociali ed economiche – da vent’anni senza una credibile opposizione – dovrebbero esserne lampante testimonianza), hanno da tempo rispolverato il principio di sussidiarietà, ormai proiettate verso la stabilizzazione del nuovo ordine mondiale che intende sistematizzare la divisione del genere umano in caste la cui unica discriminante è il potere economico-finanziario.
In un Paese smemorato (o ignorante, in senso etimologico) come il nostro – pare che i tre quarti degli italiani non sappiano che cosa si festeggi il 2 giugno o il 25 aprile – sarà appena il caso di ricordare che il principio di sussidiarietà nasce nel 1891 con la Rerum Novarum di Papa Leone XIII, nel tentativo di articolare un compromesso tra gli eccessi del capitalismo liberista e le molteplici forme di comunismo e anarco-comunismo che propugnavano la supremazia degli interessi dello Stato su quelli dell’individuo. Il principio di sussidiarietà entra quindi a pieno titolo nella dottrina sociale della Chiesa.
Ma cosa dice in sostanza questo principo? Sostiene che le autorità centrali, nell’economia di un Paese, dovrebbero avere solo una funzione sussidiaria, di aiuto, nel senso che dovrebbero intervenire solo nelle materie e nelle occasioni in cui l’amministrazione immediatamente inferiore non possa intervenire efficacemente. Si tratta quindi di istituire una catena di competenze politiche e politico-amministrative, in senso lato, che dall’ente locale minore (il Comune) salga via via verso l’ente superiore o principale (lo Stato) attraversando strada facendo le Provincie e le Regioni. In buona sostanza, il principio di sussidiarietà è, idealmente e di fatto, una delle basi del federalismo.
Il principio di sussidiarietà è stato recepito in pieno dall’Unione Europea con il Trattato di Maastricht del 1992, il che è ovviamente ineccepibile perché la UE – in linea di fatto e di diritto – è una federazione di Stati indipendenti, già uniti da vincoli culturali, storici, economici ed etici (?), organizzata da una legislazione comune che sempre più incide, in quanto prevale, sulle legislazioni nazionali. Nel Trattato si dice:
“Nelle materie che non sono di sua esclusiva competenza, l’Unione opererà, secondo il principio di sussidiarietà, solo se e in quanto gli obbiettivi oggetto dell’intervento non possano essere ragionevolmente raggiunti dagli Stati Membri”
Un’analisi più dettagliata del principio si trova nel Protocollo 30, in cui l’art. 9 della Proposta di Costituzione Europea recita:
“Secondo il principio di sussidiarietà, l’Unione opererà nelle aree che non sono di sua esclusiva competenza solo se e in quanto gli obbiettivi oggetto dell’intervento non possano essere ragionevolmente raggiunti dagli Stati Membri a livello centrale, regionale o locale e solo se e in quanto, a motivo della scala e degli effetti della azione proposta, essi possano essere più efficientemente raggiunti a livello di Unione”.
Le implicazioni sulla vita dei cittadini sono vaste e profonde: a fronte di piccoli benefici (simili a quello d’avere il droghiere sotto casa) si va inevitabilmente verso una società strutturalmente e civilmente disgregata. Coerentemente con la visione che della società ha l’ideologia neocon e teocon imperante, si tenderà verso un sistema destrutturato in cui i compiti dello Stato saranno ridotti all’essenziale (politica estera e gestione dell’intervento armato nelle aree di crisi) mentre tutto ciò che possa essere gestito in termini “economicamente” più convenienti verrà devoluto ad entità di livello inferiore (regioni, provincie e comuni) e da queste sempre più frequentemente devoluto al privato. La tragedia della privatizzazione delle utilities, quelle dell’acqua in particolare ne è palese dimostrazione.
Lo Stato Sociale (il Welfare State di keynesiana memoria, quello che in nome dei diritti del cittadino ci avrebbe dovuto accompagnare dalla culla alla tomba) ha ormai esaurito il suo compito perché – si dice – il privato è più efficiente e meno costoso. Ricordo, pur senza citare cifre di cui non ho certezza, che ormai la spesa sanitaria rimborsata alle case di cura private sta per superare quella degli ospedali pubblici e che il finanziamento delle scuole private (cioè cattoliche) cresce in misura geometrica a scapito della scuola pubblica – ça va sans dire.
L’economicismo – sinonimo di cattiva economia – è ormai entrato anche nel linguaggio comune, come insegnano i maestri della tv: si parla di costi e benefici del rapporto affettivo, di investimento in cultura sanremese, di rendita positiva del volontariato.
Ammetto di avere sempre avuto, dell’idea di Europa Unita, una visione forse romantica, ma non certo utopica. In fondo, i trattati e le costituzioni altro non sono se non gli strumenti per rendere possibile un futuro, e certamente l’idea che esce dai documenti che questa Europa ha prodotto sono ben lungi dall’idea che dell’Europa avevano gli uomini che avviarono il processo di integrazione alla fine della seconda guerra mondiale. Quindi, mentre è lungi da me una posizione anti-europeista, considero illiberale questo progetto di Europa integrata perché, nel negare elementari diritti di cittadinanza acquisiti dalla stragrande maggioranza dei cittadini europei dagli anni del secondo dopoguerra ad oggi, pianifica una società strutturata in caste in cui lo Stato (nazionale e sovranazionale) ha rinunciato al suo ruolo di mediazione degli interessi e dei conflitti. Non si deve infatti sottovalutare il fatto che il concetto stesso di sussidiarietà ha dimensioni e implicazioni politiche, economiche e sociali che vengono spacciate come portatrici di nuove autosufficienze (il criterio di autosufficienza, perché l’operato dei governi centrali non può sempre raggiungere gli obbiettivi), di nuovi benefici (il criterio del valore aggiunto di decisioni non efficienti, se prese a livello diverso da quello locale), di nuova partecipazione (il criterio della vicinanza del potere decisionale, secondo il quale le decisioni spettano agli enti più vicini al cittadino), di nuove libertà (il criterio dell’autonomia, secondo il quale ogni intervento deve portare ad una maggiore libertà per l’individuo). Ma di quale nuove e maggiori libertà si tratti nulla è dato sapere.
Il principio di sussidiarietà prende a fondamento l’autonomia e la dignità di un individuo assolutamente ideale, ma contestualmente sottrae autonomia e dignità al cittadino reale nella misura in cui aliena acquisiti diritti di cittadinanza e di tutela e lo lascia in balìa di un sistema economico di rapina che è reale, aggressivo, prevalente. (Diceva Stanislaw Lec che la costituzione di uno Stato dovrebbe essere tale da non ledere la costituzione del cittadino).
Il principio di sussidiarietà sostiene che i governi dovrebbero occuparsi solo delle iniziative che eccedono le capacità di gruppi di cittadini e degli enti locali (comunali, provinciali e regionali) e, poiché l’uomo è per sua natura un essere sociale più vicino a comunità di taglia piccolo-media, le istituzioni come la famiglia, la chiesa, le associazioni di volontariato vanno valorizzate come strutture che legittimano l’azione individuale e collegano l’individuo alla società propriamente detta. Si programma un ritorno alle Dame di San Vincenzo, alle Arciconfraternite della Misericordia, alle Case del Fanciullo, alle mammane.
Nella visione formalmente idealizzata (ma concretamente pianificata) della UE – una sorta di Brave New World di Huxley – l’umanità europea vive in società libere, sane e tecnologicamente avanzate; non vi sono interessi economici prevalenti (i “vested interests” di Keynes), non c’è corruzione, non c’è guerra, non c’è ingiustizia sociale, disoccupazione, sfruttamento, criminalità e mafie. Nella visione idealizzata della UE prevale infatti la “sussidiarietà positiva”, ovvero l’imperativo etico della comune azione individuale, familiare, comunale, provinciale, regionale, istituzionale e governativa per creare le condizioni necessarie per il pieno sviluppo dell’individuo e l’affermazione del suo diritto al lavoro, a una casa decente, alla salute e all’istruzione.
Per quanto riguarda l’Italia, la Costituzione repubblicana è già stata abbastanza maltrattata con l’imposizione del vincolo di bilancio all’articolo 81 e con il prossimo stravolgimento dell’articolo 138. Eppure finora si è trattato di decentramento amministrativo – la devolution degli anglosassoni – e non (cosa ben diversa) di capacità legislativa ch’è prerogativa di unità statuali federate o non. Spiace insistere su quello che qualcuno ritiene capziosi sofismi, ma il problema naturalmente e purtroppo non è lessicale (o di scelta dei termini), bensì semantico (cioè di significato delle parole). Verrebbe voglia di citare Giambattista Vico e i suoi cicli storici. Verrebbe voglia di parlare della fine – così si sostiene – delle ideologie. Verrebbe voglia di ri-definire il concetto di ideologia.
Temo che poca o nulla della nostra classe politica si troverà d’accordo su questa impostazione. Sarebbe già un successo se i nostri legislatori riflettessero sugli imperativi categorici à la Kant suggeriti negli anni ‘70 da Heinz von Foerster, fisico, costruttivista, pensatore di area tedesca:
1. Imperativo etico: agisci in modo da aumentare il numero delle scelte.
2. Imperativo estetico: se vuoi vedere, impara a guardare.
3. Imperativo politico: non cambierai mai la realtà se non (la) sai leggere.
Se potessimo contare su questo, penso che ci saremmo incamminati davvero sulla strada che porta alla (difficile) salvezza del Paese.