Sposto una ciocca di capelli dal viso e sento le tue mani che mi stringono il collo.
Quasi mi manca l’aria, ancora dopo sei anni. A volte piango, altre mi arrabbio, altre ancora mi sento in colpa. Sprofondo in un cupo silenzio. Vorrei parlarne, ma ha senso dopo sei anni?
Ha sempre senso.
Più indietro nel tempo, una bimba seduta a una scrivania che non conosce la differenza tra bene e male. Una bimba che si fida e non capisce. Le mani, quelle mani così familiari sul proprio corpo, che scivolano in posti in cui non dovrebbero mai arrivare e violano la libertà, squarciano il rispetto, distruggono l’infanzia.
E il senso di disgusto. Un senso di disgusto strano, inappropriato, quasi colpevole, sale su dallo stomaco e toglie l’appetito.
Cosa sta succedendo?
Le parole, negli anni, ripetute, non comprese.
Perdonare, dimenticare, perdonare, dimenticare. Perdonare, dimenticare, perdonare, dimenticare. Perdonare e dimenticare.
Sono passati 18 anni dalla prima volta e sei dalla seconda. Non ho né perdonato né dimenticato.
L’ho pensato per un lungo periodo. Ti ho perdonato, mi dicevo, stavi male, eri malato, era una dimostrazione di affetto. Ti giustificavo e mi colpevolizzavo. E l’ho fatto anche dopo, la seconda volta, quando tu ormai eri morto ma la vita mi aveva fatto incontrare un altro come te.
Ho giustificato e mi sono colpevolizzata.
Ora lo so che non ci sono giustificazioni. Che niente può dare un senso a un abuso o a una violenza, che la colpa è tua e sua, che non ci sono principi che salvano donzelle impaurite.
Ora so che ci si salva chiedendo il giusto aiuto, parlando, raccontando, denunciando.
Ora so che i mostri esistono ma possono essere anche sconfitti.