Giuseppe De Francesco, vent’anni, morto di mafia

Val la pena soffermarsi per cercare di capire, non tanto la morte in sé, con ogni probabilità dovuta ad un regolamento di conti,  ma ciò che a quella morte è seguito.

Perché se la morte in questo caso perde la sua natura di processo logico, bisogna pur cercare di interpretarla. Bisogna cercare di dare senso al suo non senso.

Se muore un ragazzo di vent’anni a cui lo Stato nega i funerali in forma pubblica perché appartenente al clan che domina Camaro, non gli negano invece un tributo i suoi amici con uno strombazzante corteo colorato da maglie rosse.

Perché le maglie rosse? Rosse come il sangue, come l’amore, come la ribellione, come la lotta. Ma lotta contro chi, contro cosa?

Con quel tributo la mafia  ha esorcizzato attraverso un rito di festa la paura di eclissarsi, di perdere identità e vigore.

E allora il corteo che sostituisce quello funebre si trasforma in manifestazione di coesione e forza attraverso cui la mafia scongiura la sconfitta che deriva dalla morte.

Non è una sfida alle istituzioni come banalmente si è scritto e detto, ma un’affermazione di identità.

In realtà è anche un’affermazione del coraggio sprezzante, una epifania di quell’onore che non può che palesarsi se non con l’arroganza della disobbedienza ad un divieto di un’autorità, lo Stato, che non si riconosce, e con la prepotenza.

Non abbiamo assistito alla sana manifestazione di solidarietà tra ragazzi per la morte ingiusta di uno di loro, ma all’insano e macabro desiderio di affermazione di un sé collettivo degenere.

 Il coraggio vero, sarebbe divenire un elemento disgregante; in questo caso invece l’azione, questa azione comune e condivisa, ha acquistato il suo significato nel momento in cui si i ragazzi hanno dimostrato al mondo di essere capaci di metterla in atto.

Perché il coraggio mafioso è  da sempre la condotta impavida, si esprime come esercizio di autorità, esibizione di forza  e gli esponenti delle organizzazioni mafiose hanno da sempre prestato attenzione  a come vengono rappresentate all’esterno, nel mondo.

E la stessa città che il ventuno marzo era di Libera, viene attraversata ancora una volta dall’amara consapevolezza che tutto è da fare, che “infiltrarsi” è difficile più di quanto si creda, e che il momento in cui  quel “noi” che abbiamo gridato vincerà è inesorabilmente lontano.   

Giuseppe De Francesco, o Tortorella come il suo padrino, vent’anni come i nostri figli, morto di mafia, celebrato per le strade.