I figli … delle vittime delle mafie

E’ stato l’argomento di questi giorni. Pur con sfaccettature e circostanze diverse la stampa ha in modi vari dato voce ai figli, anzi, alle figlie, di due riconosciuti boss mafiosi, Totò Riina e Matteo Messina Denaro, Lucia e Lorenza, ironia della sorte quasi a riproporre il quadretto letterario dei Promessi Sposi. Solo che si tratta di due ragazze che probabilmente nemmeno si conoscono. I loro padri invece si, eccome. Anche se Matteo Messina Denaro, papà  di Lorenza, nei pizzini scriveva che lui si sentiva di somigliare di più a Bernardo Provenzano, don Binnu, di fatto Matteo è stato sanguinario quanto Riina. La somiglianza con Provenzano lui la rivendicava a proposito della capacità di avere creato una nuova Cosa nostra, la mafia sommersa e delle imprese che a pensarci bene non è nemmeno una loro invenzione ma appartiene alla capacità dei mafiosi trapanesi, imprenditori, borghesi e soprattutto…campieri, comportamenti la cui origine è da fare risalire addirittura al dopo guerra. Gli articoli di stampa e di tv sulle figlie dei mafiosi hanno suscitato attenzione quanto anche scalpore e prese di distanza. Sotto attacco sono finiti i cronisti anche da parte di altri cronisti.

Possiamo dire “era già tutto previsto”. Avere dato voce a Lucia Riina e avere usato le poche frasi scritte su Fb da Lorenza la figlia di don Matteo (non quello della fiction ma ripetiamo il volgare e feroce assassino della mafia belicina) non è stata cosa gradita: comune denominatore delle due ragazze quello che loro l’amore per i propri padri non l’hanno perduto; Lorenza ha però fatto un gesto rivoluzionario e che così risulta a chi conosce bene la storia di questa ragazza. Lorenza figlia di Matteo Messina Denaro e Francesca Alagna, oggi ha 17 anni, 18 anni li compie a dicembre prossimo, è cresciuta nella casa dei nonni paterni dentro quel quadro familiare dove chi non c’era era come se ci fosse, i due padrini della mafia, Ciccio e Matteo Messina Denaro, padre e figlio, nonno e papà per Lorenza, nonostante fossero latitanti, don Ciccio morirà da latitante nel 1998, era come se vivessero in quella casa, ogni stanza le loro foto, a tavola i posti riservati, le visite degli amici ogni giorno a casa Messina Denaro e Lorenza spesso chiamata a mettersi vicino all’austera nonna ad ascoltare i discorsi, “vedi Lorenza questi sono amici del nonno e del papà”. A completare tutto le zie, le sorelle del papà, che se ne prendevano cura, accompagnandola pure in chiesa per i preparativi per la prima comunione. Se proprio poi Lorenza doveva uscire fattasi più grandicella a fare da guardiaspalle un paio di suoi cugini. Francesca, la mamma di Lorenza, non è che avesse tanto da fare, l’ordine per lei era quello di non farsi vedere in giro. Adesso è successo che la ragazza si è stancata, ha chiesto e ottenuto di non vivere più dentro quel “sacrario” mafioso, la madre l’ha accontentata e anche lei in un certo senso ha conquistato libertà. Lorenza però l’amore per il padre come Lucia Riina non l’ha perduto, se Matteo Messina Denaro nei pizzini scrive di essere un perseguitato la figlia se la prende col destino che le ha tolto l’affetto più caro. La rivolta c’è stata ma non contro il padre latitante ma nei confronti di nonna e zie, delle zie soprattutto, Bice, Patrizia e Rosaria, mogli rispettivamente di Gaspare Como, Vincenzo Panicola e Filippo Guttadauro, anche loro nomi “pesanti”, chi conosce bene le loro donne sa che potrebbero essere violente tanto quanto il fratello, a parole e nei comportamenti.  Raccontare perciò quanto avvenuto era doveroso per un giornalista bravo, come Lirio Abbate, che ha scritto le vicissitudini di Lorenza su L’Espresso. Ma non ci si deve fermare a questo. A chi ha letto le parole di Lucia e Lorenza non gli si può permettere di ragionare e quasi condividere il fatto che è naturale che i figli non girino mai le spalle ai padri che possono essere stati gli autori delle più gravi malefatte. Bisogna dare altro materiale per riflettere. Parlare di altri figli. Sul Fatto Quotidiano assieme alla collega Sandra Amurri abbiamo ricordato per esempio la storia dimenticata dei figli di Pino Sucameli, architetto e dirigente del Comune di Mazara, arrestato per mafia e che aveva il posto riservato alla tavola dove sedevano due boss come Mariano Agate e Totò Riina, i figli di Sucameli nel 2010, nel giorno dell’anniversario della  strage di via D’Amelio, hanno scritto al padre praticamente per annunciare di avere preso da lui grande distanza. Poi ci sono altre figlie e figli, quelli che non si ritrovano più il padre o tutte e due i genitori, o ancora i parenti più prossimi, perché uccisi dalle mafie. Margherita, Daniela, Flavia, Stefania, Anna Maria, Liliana, Marene, Silvia, per fare alcuni nomi. Orfani o vedove non per colpa del destino ma per causa di malefatte che hanno origini precise, il fetore del tritolo e della carne bruciata chi lo vuol sentire lo sente ancora, i responsabili hanno nomi e cognomi scritti a carattere cubitale sulle sentenze, anche quello di Matteo Messina Denaro che il 27 maggio 1003 andò a far piazzare un furgone imbottito di tritolo sotto la palazzina dei Georgofili a Firenze, provocando l’ennesima strage anche di bambini e giovani. Quante volte abbiamo scritto di loro? Quante volte qualcuno ha detto che per loro il lutto è stato una fortuna perché hanno trovato un posto di lavoro? Quante volte sono state cercate le loro testimonianze.

Quante volte hanno dovuto fare tutto da sole. Pensate Margherita Asta, figlia e sorella delle vittime della strage di Pizzolungo del 2 aprile 1985, fin quando stava in silenzio era rispettata a Trapani, quando decise di gridare la sua indignazione per la indifferenza che c’era nei confronti del suo dolore e quindi della mafia stragista che aveva ucciso sua madre e i suoi fratellini, un politico disgraziato prese la parola per dire che quella ragazza stava strumentalizzando a fini politici il suo dolore. Episodi liquidati con poche righe in cronaca e dimenticati. Il pezzo di Lirio Abbate ha avuto il merito di ricordare che in Italia c’è un pericoloso latitante che si chiama Matteo Messina Denaro e che non viene bene ricercato, o almeno c’è a Trapani chi saprebbe catturarlo, ma le strategie investigative trapanesi, ereditate dall’ex capo della Mobile Giuseppe Linares, oggi promosso, trasferito e…rimosso, mandato a guidare la Dia di Napoli, non sono apprezzate da altri super investigatori. A Trapani però il gruppo insiste e siamo sicuri avrà successo presto o tardi. Lirio Abbate ha anche ricordato che Matteo Messina Denaro oltre ad avere l’affetto della  figlia riceve l’affetto di suoi paesani e non paesani qualsiasi ma pezzi da 90. Intanto ha ancora ricordato Abbate che la mafia trapanese con una serie di scarcerazioni ha avuto modo di riassestarsi. Il pezzo di Abbate ma anche quello sul Fatto Quotidiano hanno ricordato il legame tra Messina Denaro e la politica, col senatore D’Alì, sottosegretario all’Interno per 5 anni, sotto processo per mafia e che a Trapani si è fatto vedere in giro con il ministro dell’Interno Cancellieri, una immagine che può essere risultata tranquillizzante per Messina Denaro, se il ministro Cancellieri, titolare delle direttive per la cattura del boss Messina Denaro, amichevolmente gira con colui il quale è ritenuto il complice più forte dello stesso latitante, la cosa si commenta da se come suol dirsi. Perché allora criticare Abbate?  Se davvero vogliamo scrollarci di dosso l’ignominia che Sicilia è uguale mafia, bisogna rinnegare l’ordine che la mafia da decenni ha dato a questa terra e cioè “tacere è bene parlare è male”. Parliamo e scriviamo. Parliamo adesso di più delle figlie e dei figli che non hanno più come Lorenza cuoricini da mandare ai loro padri, raccontiamo le storie di questi giovani diventati adulti in mezzo al dolore, di essere diventati testimoni delle mafie, di avere deciso di spegnere la loro vita, come fece Rita Atria, per testimoniare quanto la mafia senza ucciderla era riuscita a farle violenza.

Dobbiamo augurarci che la mafia di dosso se la scrolli anche Lorenza e per questo dobbiamo scrivere facendo in modo che anche lei legga e rifletta. E finalmente possa riconoscere quanto il padre le abbia fatto male a lei come a tutte le altre sue vittime, “quelle che da sole riempiono un cimitero” (ct. Messina Denaro).