Il 41-bis spiegato dal procuratore aggiunto Sebastiano Ardita

Sono due le notizie del giorno quando intervistiamo Sebastiano Ardita, procuratore aggiunto a Messina, autore del libro “Ricatto allo Stato” e difensore del pm di Palermo Nino Di Matteo nel procedimento disciplinare che vede il magistrato dell’inchiesta sulla trattativa mafia-Stato sotto accusa davanti al Csm. La prima riguarda Totò ‘u curtu Riina: è stata rifiutata la richiesta di concedere al boss la detenzione in ospedale per problemi cardiaci. La seconda, invece, è quella degli 8 arresti per la strage di Capaci, chiesti dalla procura di Caltanissetta per i componenti del commando che ha procurato e posizionato il tritolo destinato a uccidere Giovanni Falcone sull’autostrada, all’altezza dello svincolo di Capaci. La nostra intervista non può che partire da questi due dati di cronaca.

Dottor Ardita, oggi è stata confermata la detenzione al regime di 41-bis per Totò Riina, dopo la richiesta avanzata dai suoi legali di “ammorbidire” il carcere duro per il boss a causa dei suoi problemi di salute. Spesso si sono sollevate polemiche sulla durezza del 41-bis. Secondo lei è inumano?

«Indubbiamente il 41-bis è uno strumento che ha come scopo non quello di punire maggiormente, ma quello di impedire le comunicazioni con l’esterno. Quindi, nell’ambito di questo schema operativo, bisogna assicurare delle condizioni che consentano anche la tutela della salute delle persone detenute. Se ogni volta che ci fosse un problema di salute non si riuscisse a intervenire e si togliesse il 41-bis, questo perderebbe il suo significato. Bisogna garantire entrambe le esigenze: la salute e l’esigenza di protezione del 41-bis. Ecco perché Riina resta al carcere “duro”, perché il sistema prevede questo tipo di cautela». 

Lei crede che il 41-bis sia una misura commisurata alla pericolosità dei boss o se ne potrebbe fare a meno?

«Torniamo al discorso di poc’anzi: il 41-bis nasce come strumento per impedire le comunicazioni con l’esterno, però questo comporta anche un inasprimento delle condizioni generali di detenzione. Questo è certo. E quindi porta con sé una sofferenza per il detenuto. Ma questa sofferenza va bilanciata con i beni che si vogliono tutelare, che sono la vita e l’incolumità delle persone e la libertà dei territori del mondo dal fenomeno mafioso. Quindi messi su una bilancia questi valori chiedo a voi: qual è più importante?».

Anche dal punto di vista legislativo il carcere duro è stato spesso messo in discussione. La sua abolizione era nel papello delle richieste che la mafia faceva allo Stato nella trattativa. Secondo lei è stato mantenuto o i tentativi di svuotarlo dei suoi contenuti più rigidi sono andati a buon fine?

«Certamente non solo i singoli mafiosi ma la mafia come organizzazione teme il 41-bis e vuole liberarsene. È chiaro che a fronte di questa importante pressione la stora, le indagini e le ricostruzioni dei fatti criminali ci hanno insegnato una mafia aggressiva, a volte anche spietata per liberarsi del 41-bis. Sulla base di sentenze è riferibile a questo anche l’attività stragista del 1992-93. C’è una mafia che ha tentato in ogni modo di far sì che venisse svuotato del suo contenuto. Questo di fatto negli anni non è avvenuto. Ci sono state negli anni fasi nelle quali ci si è posto il problema della garanzia più che in altri momenti, ma complessivamente l’istituto ha tenuto, sia normativamente sia sotto il profilo amministrativo».

Rispetto al periodo stragista la mafia sembra essersi sommersa. Cos’è cambiato?

«È cambiato molto, è cambiata la strategia perché quando lo Stato ha dato un certo tipo di risposte a quella che era l’aggressione criminale mafiosa, le strategie criminali sono mutate. Da un lato gli strumenti di investigazione sono migliorati – e fra di questi ci metto il 41-bis insieme alle attività investigative, a un uso attento e strategico dei collaboratori di giustizia e alle informazioni che loro portavano – dall’altro lato c’è stato un cambio di rotta perché Cosa nostra ha compreso che era più redditizia per lei una situazione di calma e stabilità piuttosto che una contrapposizione frontale nei confronti dello Stato, che comportava altre reazioni, quindi altre normative e la produzione di un ulteriore sforzo antimafia». 

Lei si sta occupando della difesa del magistrato Nino Di Matteo, che ha ricevuto pesanti minacce. Noi abbiamo sentito il suo collega Antonio Ingroia, e la sua maggiore preoccupazione è che quelle minacce non arrivino da ambienti mafiosi ma da ambienti istituzionali preoccupati che si scopra la verità sulla trattativa. Lo pensa anche lei? 

«La verità fa sempre dispiacere a qualcuno. Le indagini che attingono a livelli più importanti fanno più paura perché possono riguardare persone di potere. Fa parte del meccanismo umano delle azioni e delle reazioni. Io di questo non mi stupirei. Quello che bisogna assolutamente impedire è che una persona che svolge un ruolo importante di contrasto e di verità e lo fa con valore rimanga isolata. Vedo che c’è tanta gente che crede nel suo operato e nella sua attività e io voglio augurarmi che non ci sia isolamento».

Gli 8 arresti del commando che ha procurato e posizionato il tritolo che ha ucciso Giovanni Falcone, la moglie e la sua scorta sono arrivati dopo 21 anni. Perché ci vuole così tanto?

«Non tutte le verità sono semplici da ricostruire e non tutte le verità umane storiche sono complete. Se vengono altri pezzi di questa verità noi dobbiamo ben accoglierli e lavorarci perché portino altri risultati».

C’è un’idea di ragione di Stato che ostacola la ricerca della verità?

«Spero di no». 

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