Non è facile affrontare il tema della riforma costituzionale senza cadere nella tentazione di trasformare la discussione in caciara o rissa. In questo senso, interessa poco se è stato il Presidente del Consiglio Matteo Renzi a personalizzare il discorso, oppure se è stata l’opposizione a salire sulle barricate e a cavalcare la tigre di una presunta deriva antidemocratica a cui darebbe luogo la riforma costituzionale che dovremo votare il 4 dicembre del 2016.
Detto questo, la carta costituzionale, che un certo “mito” scolastico vorrebbe intoccabile e immodificabile, può essere modificata, cambiata e anche trasformata in tutte le sue parti. Ne sono prova i numerosi tentativi di modifica costituzionale che la nostra storia parlamentare annovera. Le famose e numerose “bicamerali” (commissioni miste di Senatori e Onorevoli) a cui dagli anni Ottanta in poi si era affidato il compito di partorire un testo “condiviso” da sottoporre alla votazione del parlamento secondo una procedura complessa e con maggioranze quantificate.
Anche l’attuale testo di riforma è frutto di un accordo politico. Spesso lo dimentichiamo, ma il c.d. “Patto del Nazareno” è stata la base comune sulla quale le forze di centro destra e di centro sinistra hanno fondato e scritto la riforma. Oggi il vento della politica è cambiato, ma il testo della riforma è rimasto lo stesso, un testo che ha un solo scopo, quello di cambiare l’architettura costituzionale del nostro sistema Repubblicano.
Quindi, non si abbandona ad esesempio il sistema Repubblicano per la Monarchia, come non si stravolgono i principali organi costituzionali (il Presidente della Repubblica, il Consiglio dei Ministri, la Corte Costituzionale, la Magistratura o gli Enti Locali) e neanche s’intacca il sistema dei pesi e contrappesi posti a garanzia della democraticità del nostro sistema costituzionale. Quello che la riforma tenta di realizzare è il superamento del bicameralismo perfetto, cioè la coesistenza di due apparati come la Camera del Parlamento e quella del Senato che sostanzialmente e di fatto fanno le stesse identiche cose: promulgano la stessa legge, votano gli stessi provvedimenti, nominano gli stessi organi, ecc…
Ciò detto, e con buona pace dei numerosi detrattori, la riforma non tocca i diritti civili delle persone o principi fondamentali che sono riportati nella Costituzione (ad esesempio, il principio di uguaglianza, di libertà di pensiero e parola, i diritti politici e sindacali delle persone); tant’è che i primi 47 articoli della Carta Costituzionale rimangono invariati. Pertanto, risultano abbastanza anacronistici e fuori luogo tutti quegli appelli alla resistenza, ai partigiani, alle frasi di Calamandrei come se la riforma volesse attentare alla Democrazia per riportarci al Fascismo. Per carità, nessuno vuole disconoscere il sacrificio dei nostri padri o il sangue versato per la libertà, solo che con questa riforma non c’entrano proprio nulla.
Sgombrato il campo dai numerosi equivoci, quello che la nuova architettura della riforma prevede è solo una separazione di competenze tra Senato e Camera. Il Senato diventerebbe la rappresentanza delle istituzioni territoriali. Cioè, non più un Senato con funzioni legislative pari a quelle della Camera dei deputati, ma una “camera” delle Regioni e delle Città Metropolitane. I Senatori saranno 100 e ogni Regione non potrà avere meno di due rappresentanti. I vantaggi di questo sistema sono facilmente intuibili, ma per restare con i piedi per terra basta fare l’esempio di Messina.
Oggi noi siamo una Città Metropolitana, quindi il nostro Sindaco Renato Accorinti, quale rappresentante della Città Metropolitana e anche se da parte sua ha già detto che voterà per il NO alla riforma, se passa il SI siederà nel Senato della Repubblica. Questo gli consentirebbe di far valere le ragioni del territorio da lui amministrato direttamente a Roma e non dover di volta in volta chiedere all’Onorevole di turno d’intercedere presso il tal Ministero per quel provvedimento o per quella pratica rimasta nel cassetto. Si pensi a quante volte l’allora vicesindaco Guido Signorino dovette andare a Roma solo per bene incardinare e presentare nelle giuste forme il Piano di Equilibrio decennale. In altri termini vi sarebbe una semplificazione dei poteri decisionali, una diminuzione dei conteziosi e la possibilità di far valere le proprie ragioni direttamente e senza intermediazione “politica” tra il territorio amministrato e l’esecutivo (il Governo).
Se questo è vero, è altrettanto vero che i nuovi “Senatori” essendo rappresentanti degli enti Locali (Regioni e Città Metropolitane) sono stati già eletti direttamente dai loro cittadini e quindi per sedere in Senato non avranno bisogno di essere eletti di nuovo. Per questo si parla di elezione indiretta dei nuovi Senatori. Ecco che il nuovo testo costituzionale prendendo atto della nuova architettura recita: “Il Senato esercita funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica.”
Da questa nuova architettura costituzionale deriva necessariamente anche una differente competenza legislativa tra i due organi. Ed invero, il principio cardine per cui la Sovranità è del popolo ed è esercitata mediante il voto rimane invariato, per cui spetta principalmente a coloro che attraverso il voto sono stati nominati direttamente dai cittadini (i Deputati della Camera) il compito di esercitarla. Ovviamente, l’atto tipico di esercizio dei parlamentari è la formazione ed emanazione della legge, quindi la funzione legislativa spetta prevalentemente ai Deputati. Ai senatori, nella nuova architettura, spetta comunque il compito di verifica e controllo che deve essere esercitato entro 30 gg. dal ricevimento del testo di legge.
Quandi, l’art. 70 della Costituzione, che nella nuova versione ha dato il fianco a molto critiche per la sua presunta “complessità”, in realtà se paragonato a quello che in altre Costituzioni ha previsto una divisione delle competenza tra gli organi dello Stato è abbastanza semplice. Esso nella prima parte prevede che le due camere (Senato e Parlamento) per alcune specifiche materie (quella costituzionale, quella referendaria, alcune di quelle Europee o quelle inerenti l’organizzazione e il funzionamento delle Regioni o delle città metropolitane ecc…) debbano esercitare la funzione legislativa in comune, mentre per tutte le altre leggi l’approvazione delle leggi spetta esclusivamente alla Camera dei Deputati. Ne discende che nella nuova architettura costituzionale tutti gli altri articoli che riguardano la formazione della legge, le commissioni parlamentari con funzione legislativa, i Decreti Degislativi e la decretazione d’urgenza o i Decreti Legge, con l’art. 77 della Costituzione che pone nuovi limiti all’esecutivo per la loro adozione, seguano tutti il principio generale della separazione delle competenze e quindi mentre oggi le “cose” si fanno due volte con la riforma si farebbero una volta sola.
Come si vede la riforma costituzionale, al di là delle valutazione politiche che lasciano il tempo che trovano, tenta di semplificare il procedimento decisionale, elimina la ripetizione di funzioni e competenze tra le due camere parlamentari, e tutto questo senza intaccare il principio democratico della sovranità popolare, dei diritti individuali e dei principi costituzionali. Anzi, le proposte d’iniziativa popolare che molto spesso rimangono lettere morta, non essendovi nessun obbligo di discussione parlamentare delle stesse, con la riforma costituzionale dovranno necessariamente essere incardinate e discusse in parlamento se lo richiedono almeno 150.000 firme.
Un altro tassello importante della riforma è quello inerente la legislazione concorrente tra Stato e Regioni. Come è noto, la riforma costituzionale del titolo V della Costituzione, cioè il fallito riordino in senso federalistico dello Stato attuato nel 2001 e approvato sotto le spinte secessionistiche della Lega e senza la necessità di alcun referendum, creò tra Stato e Regioni un’architettura costituzionale per cui alcune materie erano di competenza esclusiva dello Stato, altre di esclusiva competenza delle Regioni ed altre ancora prevedevano una competenza concorrente.
Precisamente, nella legislazione concorrente lo Stato emana la c.d. legge quadro e le Regioni all’interno del quadro o dei paletti legali fissati dallo Stato può liberamente legiferare. Si pensi ad esempio ai ticket sanitari che sono previsti in linea generale da una legge statale, ma le cui aliquote sono affidate alla competenza delle singole Regioni, tanto che il costo del ticket sanitario molto spesso cambia da Regione a Regione.
Questa architettura costituzionale ha dato il fianco a un enorme contenzioso costituzionale. Infatti, sia lo Stato che le singole Regioni si sono trovate sempre più spesso costrette a ricorrere ai Giudici Costituzionali per chiarire di chi era la competenza rispetto a una determinata materia o addirittura rispetto al singolo articolo di legge. Detto questo, se teniamo a mente che ogni singola materia (la Sanità, la Scuola, l’agricoltura, la pesca, ecc.) può essere regolata da centinaia di disposizioni di legge, possiamo comprendere facilmente come il campo dei numerosi “conflitti d’attribuzione” tra Stato e Regioni si sia in questi anni dilatato enormemente.
In questo contesto la riforma costituzionale prevede una nuova formulazione dell’art. 117 della Costituzione che elimina la competenza concorrente tra Stato e Regione, lasciando inalterate le altre due competenze esclusive.
In ultimo, una forte critica a questa architettura costituzionale è quella che deriverebbe dall’accoppiata tra riforma costituzionale e legge elettorale (il c.d. l’Italicum). In altri termini, un forte premio di maggioranza unito a un minimo di consenso elettorale da raggiungere (circa il 40%) previsto dalla legge elettorale, la mancanza del voto di preferenza da parte dell’elettore, l’aumento della quota di sbarramento per i partiti che vogliono accedere al parlamento, unitamente una riforma costituzionale che prevede una sola camera parlamentare eletta direttamente, consentirebbe al Presidente del Consiglio Matteo Renzi di farsi un parlamento ad personam.
Non entriamo nel merito, anche se sarebbe facile riportare le numerose dichiarazioni dei vari costituzionalisti che anche in questa occasione non hanno perso occasione per dividersi, ma un rilievo non può essere sottaciuto. La riforma costituzionale non è una legge che può essere modificata ad ogni piè sospinto, anzi la nostra è una Costituzione rigida che per essere modificata abbisogna di un procedimento complesso e accordi politicamente difficili (si pensi alle numerose bicamerali della nostra storia parlamentare), mentre la legge elettorale è sempre modificabile o cambiabile, essendo condizionata dalle semplici maggioranze politiche che di volta in volta si realizzano in parlamento.
Questo è tanto vero che in questi giorni, per dare risposta alle critiche emerse dal combinato disposto riforma-legge elettorale, il premier Matteo Renzi ha deciso di rimettere in discussione l’Italicum, aprendo alla minoranza interna del partito e alle opposizione. Una nuova riforma costituzionale, invece, non sarebbe ipotizzabile per almeno altri 30 anni. Infatti, se vincesse il NO, qualsiasi nuova spinta riformista della costituzione non potrebbe non tener conto di una volontà popolare negativa, espressa attraverso un referendum, contraria al cambiamento della Costituzione.
@PG