In una recente conversazione, per l’ennesima volta, mi è stato detto “per voi giovani qui non c’è futuro, vai via finché sei in tempo”. Di consueto questa affermazione è seguita da un “non si ha coraggio, ma chi ha talento dovrebbe scappare da questa città”. Troppo facile. Scappare equivale a non lottare. Non lottare equivale a non avere identità. Non avere identità vuol dire spesso e volentieri vivere di modelli precostituiti, in qualche modo socialmente imposti da vecchi e nuovi media. Ricercarsi in stereotipi sempre più diffusi in cui molti giovani si rivedono, che altri (pochi) cercano di contrastare bloccandone la diffusione mentre i “grandi” difficilmente riescono a capire senza mal giudicare. Eppure forse questi ultimi i principali responsabili di quanto sta accadendo.
Io Messina, finché potrò, non la lascio. Non condanno chi lo fa per lavoro o per studio, chi con sacrifici, per un’occupazione stabile, cerca fortuna altrove, accetta di lasciare la propria terra per garantire un avvenire migliore alla propria famiglia e ai propri cari. E’ la storia che insegna, che racconta quanto questa strada sia stata seguita nei secoli. Salvaguardare un’identità vuol dire però continuare comunque a credere nel riscatto della terra amata, non criticarla ad ogni costo ma fare, anche poco, per contribuire a migliorarla. Recupere il gap perduto con il passato per guadagnare il futuro, se non personale, delle successive generazioni. C’è chi rinnega, chi è sempre bravo a criticare senza mai costruire, chi si lagna senza muovere un dito. Lo spirito piagnucolone è ormai consolidato nell’anima di un territorio che, come la maggior parte degli storici sottolineano, dopo il terremoto del 1908 ha purtroppo perso anima e spirito. Dire che tutto non va bene e attribuire puntualmente la colpa all’altro di turno, il concittadino, il politico, etc. Le responsabilità degli amministratori sono evidenti ma come un boomerang tornano sulle spalle di chi ha permesso agli amministratori di rappresentarci, lasciando che Messina andasse sgretolandosi con buon accoglimento delle altre province. Per i giovani il discorso è più ampio. Qui, come in buona parte del mezzogiorno, gli spazi sono ridotti (eufemismo) e risulta poco semplice trovare gli stimoli per crescere insieme alla città che ci ha visto nascere, che ci ha dato il latte ma non riesce a darci il pane.
Fa male mordersi la coda ogni giorno, “combattere” contro un “nemico” immaginario che uccide sogni, desideri, ambizioni e sacrifici fatti. Ma la forza dell’umiltà e l’audacia dell’appartenenza devono spingere noi tutti, prodotti messinesi, a crederci, sfidando il pessimismo cosmico strasmessoci e le ritrosie di chi cerca di dirci che l’erba che non ci appartiene è sempre la più verde. Non è facile, è innegabile, soprattutto quando intorno le ingiustizie si moltiplicano e la città continua a smarrire punti di forza, poteri e ricchezze, talvolta usurpati da chi è pronto ad approfittarne nell’indifferenza generale. Quell’indifferenza che noi non dobbiamo emulare, assoldandoci in quella missione che nel piccolo o nel grande di quello che facciamo deve vederci difendere il nostro orgoglio. Scappare è quello che egoisticamente potrebbe aiutarci. Ma avere coraggio equivale a restare.