Il corpo di Cristo ha i capelli rasta

Il Corpo di Cristo lo vedo subito entrando. E’ disteso su una brandina, mi dà le spalle nel momento in cui varco l’ingresso laterale. Sta sotto l’altare, davanti la grande croce, a due passi dal tabernacolo. Eccolo, il Corpo di Cristo e carne. E’ separato dalle altre 200 brande. E’ un colpo d’occhio o un coltellata in piena faccia quella visione improvvisa. Le 200 brande stanno tutte allineate fitte fitte dentro quella che fino a pochi giorni fa era una chiesa di confine. Occhi grandi e dolcissimi, adombrati da un velo nero di malinconia e paura. Il viso bello, capelli rasta che ti inchiodano dentro il loro incantesimo. Forse è questo il divino.

Qui la messa non finisce mai, sono loro stessi la messa – dice don Carmelo, un pretino giovane, dall’aspetto fragile e delicato. Quartiere Falsomiele, periferia sud di Palermo. Zona di frontiera. Come quelle che ha imparato a superare il mio Cristo di carne dai capelli rasta che catturano.

Ce ne sono parecchi di Gesù Cristo qua dentro. Non assomigliano ai ritratti incorniciati alle pareti, anche se pure loro portano una croce. Non è di legno come le altre, ma è colma d’acqua. Acqua di mare, un mare di lacrime. Si va e si torna anche parecchie volte dal Mali, dal Ghana, dalla Liberia su, fino ai porti della Libia, la porta della libertà che conduce fino alle sbarre invisibili dell’Italia. Hanno lavorato fino a sfinirsi, fino a massacrarsi per parecchi mesi. Soldi, parecchi soldi, fiumi di soldi alimentano l’ingordigia dei trafficanti d’uomini. In tutti quelli che ho incrociato la parola Libia provoca una scossa di terrore, si accende negli occhi un lampo di paura. In tasca hanno ancora qualche dollaro che ci chiedono di cambiare con la moneta dell’Europa unita, la culla della fratellanza universale.  Padri, fratelli, madri. “E’ tutto alle mie spalle, baby. È il mio passato. Questo è la terra da cui ricominciare. Voglio rinascere da qui”. Sono quasi tutti poco sopra i vent’anni: è l’età giusta per sognare. E i sogni se li  sono portati appresso, sono quelli che hanno guidato la traversata, dando coraggio dentro le vene mentre la barca si ribalta, sconfitta dalle onde o dall’urto di una nave più grande e “si, io devo farcela. Dio mio non lasciarmi, non farmi bere tutte queste tue lacrime che sanno di sangue e di sconfitta. Dio mio salvami, donami soavi gocce di Paradiso”.

Ahmed spinge l’automobilina vicino ai miei piedi, invitandomi al gioco. L’accompagna un sorriso divertito mentre mi sfida a seguirlo dentro i suoi sogni di bambino. Non ce la faccio a deluderlo: afferro la mano che mi tende e  ho i suoi stessi due anni. L’Eritrea è lontana. Gli scorre nel sangue e lui non lo sa. Forse, un giorno, quando sua madre smetterà di proteggere ogni suo gesto con quel suo sguardo che inchioda, avrà voglia di conoscerla quella sua terra lontana e anche un poco italiana. Il viso di sua madre ha la solidità delle rocce ed è liquido come le onde che l’hanno condotta fin qui. E’ una rete fitta, trame di pescatori la nostra intesa di sguardi, gli occhi superano le barriere della lingua. E’ la mia Madonna nera, siamo semplicemente due donne, una di fronte all’altra, mentre scorgo Dio fra una storia di salvezza e il silenzio dell’oblio che circonda i morti, quelli che non sono qui a raccontarci le fiamme salate che non danno scampo nella fuga disperata. Good luck, fratelli. Che il cammino vi sia lieve in questa terra d’ora in poi.