La locandina del “Giovane favoloso” raffigura un Leopardi/Germano disteso sul foglio, ricurvo, mentre sembra contemplare la penna che regge ,con un filo di forza, in mano. Quello sguardo, quelli occhi perduti, stanno guardando altrove, oltre, verso una dimensione dove pochi uomini, pochi contemporanei, riusciranno a riporre la propria visione. Il film si apre con un’esibizione, in cui il conte Monaldo, padre del piccolo Giacomo e dei fratelli Carlo e Paolina, costringe i figli a far mostra della loro intelligenza. A tutto questo solo il piccolo Giacomo si ribella, tace, esita, si rifiuta di rispondere ai quesiti.
La sequenza successiva vedrà Giacomo correre spensierato nel giardino di casa, con una corona d’alloro in testa, un mantello e una spada di legno in mano, mentre viene inseguito gioiosamente dal fratello e dalla sorella. “Il giovane favoloso” rende proprio il granitico teorema su cui il poeta di Recanati baserà la sua intera esistenza: L’uomo, per sua natura o per semplice spirito di sopravvivenza, nega la Morte e con essa nega qualunque possibilità di poter raggiungere la Verità che regge i fili di questo mondo. Solo il dubbio, solo una rigorosa analisi che passi in esame ogni verità precostruita, può portare ad una vera presa di coscienza (Giacomo dirà alla sorella:” La ragione umana non potrà mai spogliarsi di questo scetticismo, perché contiene il vero” “E in cosa consiste il vero?” “Consiste nel dubbio”). Ma dopo esserci tuffati a capo fitto nello sterminato oceano della conoscenza, dopo aver raggiunto un’ampia consapevolezza, l’Uomo si rende conto d’essere solo un condannato a morte, si accorge dell’atroce destino che la Natura riserva ad esso. Di fronte a tutto questo, a questa gabbia che tiene l’Uomo prigioniero, Leopardi vede uno spiraglio. Vede nella conoscenza, nell’arte, l’unico modo per sfuggire alla sorte, per dialogare con le stelle:” Vivere a caso. Non chiedo altro in fondo”. Vede nel piacere, nell’effimero, nell’amore l’unico “senso” e l’unico atto di ribellione possibile: “ Io non ho bisogno di stima, di gloria o di altre cose simili. Io ho bisogno di amore, di entusiasmo, di fuoco, di vita!”. Subito dopo il breve prologo il film diventa la rappresentazione di un duello all’ultimo sangue tra il coraggiosissimo, giovane Leopardi e l’eterna nemica Natura.
Possiamo vedere nella figura di Leopardi un antesignano del “Superuomo” nietzscheano. Un “Superuomo” che, a differenza di com’è stato successivamente travisato dall’ideologia nazista, che vedeva in quest’ultimo un ideale di bellezza, fa dell’accettazione e della consapevolezza del proprio destino la sua forza. Tornando al duello, a sferzare il primo colpo è proprio la Natura, negando a Leopardi la più semplice, scontata forma d’amore, ossia l’amore materno. Leopardi cresce a Recanati, in un castello che sembra una tomba, sotto la morbosa e costante supervisione di un padre amorevole quanto severo e succube dell’alterigia della moglie. Leopardi viene indotto, costretto, a dedicare le sue giornate esclusivamente allo studio, a sfogliare i libri della smisurata biblioteca di famiglia, ma in questa imposizione vede lo spunto e la possibilità di poter lanciare la propria sfida. Lo studio “matto e disperatissimo”, in cui si getta ossessivamente fino a deturpare il corpo, diventa l’unico piacere. Le siepi, le case, che impediscono al suo sguardo di scorgere dalla finestra l’orizzonte, diventano l’unico mezzo per viaggiare ed osservare l’infinito. Le lettere e la stima degli intellettuali l’unica forma d’esaltazione e condivisione. L’affetto fraterno e la contemplazione dell’irraggiungibile Silvia diventano surrogato dell’amore. Ma quando questa corazza viene scalfita dalla morte improvvisa della giovane Silvia, quando l’incontro con l’amico e mentore Pietro Giordani che lo sprona a viaggiare, a conoscere il mondo, Leopardi si trova di fronte a un bivio. Fuggire o “morire” a Recanati. Nella Recanati dello Stato Pontificio, del “Dio, Patria, Famiglia” che lui, con le sue poesie, comincia a disconoscere e contrastare. Proverà a fuggire ma verrà ripreso e richiamato all’obbedienza dal padre e dallo zio:”Io odio! Odio questa prudenza che rende impossibile ogni grande lezione, padre!”. Gli verranno nascoste le lettere di Giordani ma riuscirà a fuggire, finalmente, e a raggiungere il proprio mentore a Firenze. Si aprirà il secondo atto. Dopo i primi entusiasmi, la poetica di Leopardi verrà superficialmente ritenuta troppo pessimistica anche dal mondo “colto” fiorentino e stridula rispetto alla grande ventata d’ottimismo Positivistico che inebrierà le narici del mondo intellettuale alto-borghese occidentale. Leopardi non accetterà, non vedrà alcuna possibilità di progresso umano e per questo verrà escluso, marginalizzato, anche dai colleghi che lo avevano tanto esaltato. Gli resteranno accanto soltanto Giordani ed un nuovo amico, il giovane rivoluzionario napoletano Antonio Ranieri. Riscoprirà l’amore nella nobildonna Fanny, amore non ricambiato poiché alle parole aggraziate di quell’uomo curvo, malaticcio, quest’ultima preferirà il giovane aitante Ranieri.
E ad una festa, una sera, mentre tutti insieme saranno impegnati a contemplare la statua di Psiche, Giacomo sussurrerà nell’orecchio di Fanny: “Amava ad occhi chiusi, senza vedere chi fosse l’amato. Non c’è favola più bella di Amore e Psiche”. Ancora una volta le sue fattezze, la Natura contro il quale inveirà rabbiosamente, gli negherà il piacere di provare l’amore ricambiato. “Ti giuro Ranieri, non ho mai dato la minima illusione a quel poveretto. Devi allontanarti da lui, quell’uomo uccide la tua vitale giovinezza” dirà Fanny ad un Ranieri che sembra amico di Leopardi più per compassione che per stima. Emarginato, malato, solo, Leopardi sarà ancora lontano dall’arrendersi. Lascerà Firenze con Ranieri, in viaggio come uno scalcinato Don Chisciotte, per andare a Roma e poi Napoli e stavolta proverà a cercare conforto tra il popolo, tra “quei molti che vivono,che restano fanciulli tutta la vita poiché non pensano e non sentono”. Verrà denigrato anche da loro. Ritenuto una sorta di iettatore, un nanerottolo, un tisico. Verrà sbeffeggiato come poeta, deriso dalle puttane, si ammalerà in maniera quasi del tutto irreversibile. Non riuscirà più a camminare, ormai accartocciato su sé stesso come schiacciato dal peso del mondo, ma anche stavolta non si arrenderà. Quando il dottore lo esorterà a nutrirsi meglio, a rinunciare necessariamente ai dolci e ai gelati, andrà ad abbuffarsi nei bar, facendosi beffe della morte. La reazione sarà violenta. Napoli verrà circondata dal colera. La morte assedierà Leopardi, e lui, ormai a letto, esanime, verrà trascinato a forza in una villa nelle campagne napoletane dall’amico Ranieri e dalla sorella di quest’ultimo, Paolina.
Quando Giacomo, ormai completamente infermo, chiederà a Paolina: “ Qual è la ragione per cui ti sottoponi a tutti questi sforzi nell’assistermi” lei risponderà: “ Perché leggere i suoi versi mi ripaga da tutte le sofferenze”. E nella notte, sotto una violenta eruzione del Vesuvio, pronto ad infliggergli l’ultimo colpo, Leopardi non vedrà altro che meraviglia e poesia. Sotto il cielo della notte, dialogando con le stelle, partorirà “La ginestra”. “Come la ginestra nata sulla pietra lavica” Leopardi ha vinto.