«Io adesso lavoro per l’Espresso, spero di riuscire a stabilizzarmi perché questo è il lavoro che voglio fare e soprattutto spero di avere un po’ di tranquillità per me, per chi mi sta vicino, per i miei familiari, che in questo momento mi manca».
A parlare è uno dei tanti giovani giornalisti precari d’Italia, quelli che per pochi euro ad articolo lavorano come se si potesse vivere di giornalismo. Però è una persona speciale, che ha alle spalle una storia particolare e che per come fa il suo lavoro vive sotto scorta.
La vicenda di Giovanni Tizian è iniziata nel dicembre del 2011, quando gli è stata assegnata una scorta per proteggerlo dalla ‘ndrangheta. La sua colpa era stata quella di scrivere e denunciare sulla Gazzetta di Modena le infiltrazioni in Emilia Romagna delle cosche calabresi.
Nonostante sia ormai constatato che la criminalità organizzata non è più un fenomeno solo meridionale, ma che mafia, camorra e ‘ndrangheta fanno i loro loschi affari e inquinano l’economia reale anche nel nord Italia, nell’agenda del nuovo governo manca completamente la lotta alle infiltrazioni criminali: «È un segnale in linea con quello dei governi passati – dice Giovanni – La lotta alle mafie non è una priorità di questo Paese e purtroppo non mi stupisco che non lo sia per questo governo perché non lo è mai stata. D’altronde in Parlamento siede ancora Antonio D’Alì, imputato a Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa. Vedremo come si concluderà il processo, ma intanto gli hanno confermato la presidenza di una Commissione».
Sono segnali che indicano chiaramente da che parte sta lo Stato: nella lotta alle mafie è assente, distratto. E poi ci sono i provvedimenti spot, come sottolinea Giovanni Tizian: «Angelino Alfano intende a lotta alla mafia solo come caccia ai latitanti e ancora non capisce che la vera lotta alla mafia si fa contrastandola sul piano economico, modificando i meccanismi che permettono alle mafie di entrare nell’economia legale e soprattutto con una battaglia culturale».
Lui, da giornalista precario, fa la sua parte con passione e competenza. Il 12 maggio ha vinto il premio nazionale di giornalismo giudiziario investigativo dedicato al giornalista scomparso Domenico Calabrò: «I riconoscimenti sono sempre belli e fanno piacere. Poi in un momento in cui sei costretto ad avere una limitatezza nei movimenti fanno ancora più piacere» ci dice al telefono. Nella sua vita – e di conseguenza nei suoi pensieri e nella sua quotidianità – ci sono le limitazioni del vivere sotto scorta, ed è impossibile dimenticarsene. Ma lui, che ha appena pubblicato un libro dal titolo “La nostra guerra non è mai finita”, non sente che il suo lavoro faccia parte di un conflitto: «Nel mio mestiere, il giornalismo, non ci può essere guerra. La mia guerra è più da cittadino. Quando scrivo mi attengo alle regole della professione, scrivo se ho documenti. Poi c’è un mio percorso parallelo che è una guerra che dura da trent’anni e che ho descritto nel libro. Come cittadino, come calabrese e come figlio so da che parte stare».
Il riferimento alle origini calabresi e al padre non sono casuali. Giovanni proviene dalla Locride, terra che si è ribellata alle ‘ndrine con il movimento “Ammazzateci tutti” nel 2005. Lì ha perso il papà, Peppe Tizian, sotto i colpi della lupara, probabilmente perché il “bancario integerrimo” aveva rifiutato di chiudere un occhio per favorire una pratica in odore di ‘ndrangheta.
Giovanni, prima che gli venisse assegnata la scorta, tornava ogni anno in Calabria: «Quest’anno non sono potuto andare, ho preferito far stare in serenità i miei parenti lì. Ma il mio legame con la mia terra è forte, è difficile dimenticare i luoghi dell’infanzia».