Ilva di Taranto

Taranto, quartiere Tamburi. In questa zona si trova la più grossa acciaieria d’Europa.
Fondata nel 1961, L’Ilva di Taranto, è un impianto siderurgico a ciclo integrale, dove avvengono tutti i passaggi che dal minerale portano all’acciaio. Fulcro della produzione sono cinque altiforni, dove viene prodotta la ghisa. L’impianto Ilva appartiene al gruppo RIVA, controllato dall’omonima famiglia. Il sopraddetto gruppo è il decimo produttore mondiale di acciaio. Da anni comitati e cittadini contestano questo impianto, accusandolo di inquinare l’aria e provocare malattie. E’ di questi giorni notizia che l’impianto siderurgico sito a Taranto, è sotto l’occhio del ciclone dei GIP, la quale hanno disposto tramite ordinanza, il sequestro dell’area in quanto, chi gestiva la struttura, nel tempo ha continuato la sua azione inquinante e dire che nel 2011, l’Italia era l’undicesimo paese al mondo produttore di acciaio, con L’Ilva che produceva 9 milioni di tonnellate l’anno. Il 10 agosto il Gip ha disposto che l’impianto dovrà risanare gli impianti dell’area a caldo, sequestrati per disastro ambientale ma degli stessi . Intanto il quartiere Tamburi è spaccato in due: da un lato c’è chi, come alcune associazioni ambientalistiche, spinge per bloccare qualsiasi attività nello stabilimento siderurgico e chi, come qualche lavoratore dell’Ilva, manifesta la propria preoccupazione per uno stipendio che non sembra più garantito. E mentre in questi giorni si discute su come applicare l’ordinanza del riesame, tra i lavoratori dello stabilimento cresce la tensione per la preoccupazione del domani in quanto, de L’Ilva dovesse chiudere per i lavoratori siderurgici non ci sarebbe futuro. Ma a qualche centinaio di chilometri dall’impianto di Taranto, esistono altri centri in cui l’esigenza lavorativa si paga con conseguenze gravissime per l’ambiente e per la salute. In quanto in Italia, Non esiste solo l’Ilva in Italia. Non c’è solo l’acciaieria di Taranto sotto inchiesta per disastro ambientale.
Siamo in Sicilia dove le coste, durante gli anni 60, sono state messe a disposizione di colossi energetici del tempo, ESSO ed ENI. Il nostro viaggio dei veleni parte da Milazzo ( prov. Di
Messina). In questa città sorge una raffineria, in origine denominata “Mediterranea
Raffineria Siciliana Petroli S.p.A.”, è entrata in esercizio il 3 ottobre 1961 ed ha operato fino al 1979 quando, per il sopravvenire della crisi petrolifera e per effetto di difficoltà
finanziarie del Gruppo, veniva fermata e gli impianti messi in conservazione. Nel marzo
1982 l’Agip Petroli ha acquistato le azioni della Mediterranea ed ha provveduto a ricondizionare parte degli impianti. Alla fine del 1996 nasce una joint venture tra Agip Petroli e Kuwait Petroleum Italia che rileva il 50% del pacchetto azionario. Dal 1 gennaio
1997 la raffineria ha modificato la propria ragione sociale in Raffineria di Milazzo S.p.A. e successivamente in Raffineria di Milazzo S.C.p.A. Il 1 gennaio 2003, a seguito della fusione per incorporazione di Agip Petroli in Eni S.p.A, questa ultima subentra ad Agip Petroli. Sin dal 1990 ai giorni d’oggi, la raffineria è stata oggetto di un programma di sviluppo e di adeguamento tecnologico che ha privilegiato soprattutto la capacità di conversione, ovvero la capacità di ottenere elevate rese di prodotti pregiati a scapito dei prodotti pesanti come l’olio combustibile. Attualmente la Raffineria di Milazzo è una raffineria tra le più complesse d’Europa, in grado di ricevere e lavorare una vasta gamma di materie prime e produrre prodotti in linea con le più stringenti specifiche di qualità e a bassissimo contenuto di zolfo. Questa raffineria rientra, secondo alcuni dati, tra i 44 siti in Italia esposti ad agenti inquinanti. A denunciare l’effetto inquinante dello stabilimento è stata “Legambiente Del Tirreno” assieme all’ Arpa. Le sostanze che hanno individuato le due associazioni fanno parte dei composti organici (Mercaptani, solfuri e disolfuri con caratteristiche fortemente odorigene, con O.I. (Odor Index) dell’ordine di 10 alla settima e con una bassa soglia olfattiva. La presenza di queste sostanze nella fattispecie è da
attribuire a sorgenti odorigene tipiche del ciclo produttivo della Raffineria.
Ad inquinare non è solo Milazzo, anche il litorale siracusano alla fine degli anni ’50 venne immolato nel nome dello sviluppo. Qui il cavaliere Angelo Moratti venne a costruire la Rasiom, in grado di raffinare 8 milioni di tonnellate di greggio all’anno. In seguito arriveranno la Esso, l’Eni e l’Enel. E la costa tra i comuni di Priolo, Augusta e Melilli verrà ribattezzata “triangolo della morte”. Le industrie petrolifere e quelle chimiche hanno dato lavoro negli anni a circa 10 mila persone. Oggi però, a parte la Erg, stanno tutti trasferendo altrove i cicli produttivi. Dello sviluppo economico qui è rimasto ben poco. La provincia siracusana è stata ammalata dallo smog, dalle polveri organiche e inorganiche. Sono circa
170 mila tonnellate i rifiuti all’anno che venivano prodotti nella zona . Nel triennio 2000-
2002 i morti a causa di tumore nella provincia siracusana sono aumentati del 7% rispetto al quinquennio 1995-1999. A certificare 50 anni di industria rimangono però le statistiche sulla percentuali di decessi. Il nostro viaggio tra l’impianti della morte si conclude a Gela, dove per anni la parola lavoro è stata sinonimo di ENI. Per anni in questo stabilimento gli operai hanno raffinato carburante e prodotto concimi chimici e materie plastiche. Ma di questo impianto, inaugurato nel 1965, il vero killer è stato l’ impianto di cloro- soda.
Aveva 52 celle e ciascuna conteneva 3 mila chili di mercurio. I lavoratori a volte il mercurio lo raccoglievano con le mani e i secchi. In quell`impianto, chiuso 20 anni fa, gli operai lavoravano in ambienti con campi magnetici alle stelle, a contatto oltre che con mercurio anche con cloruro di sodio, dicloretano e amianto. Il tutto era trattato senza nessuna precauzione ma il vero problema sta nella matrice ambientale. A Gela, cittadina sulla costa meridionale della Sicilia, ad essere inquinati sono anche i terreni, quasi tutti vicini all’impianto petrolchimico.

Le fabbriche dei veleni si estendono da Nord a Sud. Hanno causato polemiche, danneggiato l’ambiente e, in molti casi, causato la morte – diretta o indiretta – di molti operai. Noncuranza, norme non rispettate e agenti inquinanti sono alla base di molti disastri che oggi sono già storia e, purtroppo, anche un amaro presente.