L’Associazione Giovani Cisl di Messina, nell’ambito di una complessiva riflessione sul tema della nuova emigrazione giovanile e dello sviluppo del Meridione, ha incontrato nei giorni scorsi il Professore Giuseppe Cardillo, Ordinario di Storia Economica alla Facoltà di Scienze Politiche, con l’intento di affrontare la questione in una prospettiva concettuale più ampia. Nei quindici anni successivi al 1990 più di 2 milioni di persone hanno abbandonato il Meridione per trovare un’occupazione nel Centro-Nord del paese. Secondo le stime fornite dalla Banca d’Italia tra il 2000 ed il 2005 più di 80 mila laureati hanno abbandonato le regioni del Mezzogiorno per trasferirsi nelle aree più progredite. Queste cifre delineano un trend che negli ultimi anni si è progressivamente consolidato su livelli ancora più alti. Si stima che soltanto nel 2007, 140.000 lavoratori qualificati abbiano lasciato il Sud. Questi dati descrivono la dimensione di un fenomeno conosciuto, che ha segnato a più riprese la storia delle nostre terre, delle nostre famiglie, della nostra gente. Tuttavia l’emigrazione di questi anni presenta dei tratti distintivi molto differenti rispetto al passato. Ad emigrare, infatti, sono le risorse più qualificate di cui disponiamo, e per la cui formazione sono stati sostenuti costi molto elevati. A differenza del passato inoltre non si innescano quei meccanismi virtuosi legati al ciclo delle rimesse. Oggi sono infatti le famiglie di origine a continuare a sostenere economicamente i figli alle prese con occupazioni nella maggioranza dei casi a termine e mal pagate. Si ha dunque un ulteriore impoverimento del nostro tessuto sociale. Il passato si ripropone consegnando al presente esiti e conseguenze ancora peggiori di quelli di un tempo
Professore Cardillo, siamo di fronte ad un problema che ha radici lontane nel tempo?
«Al momento dell’unità esisteva un apparato industriale del sud quantitativamente uguale a quello presente nel nord. Stando al primo censimento, anzi, il numero di addetti nel Mezzogiorno era leggermente superiore, ma non si può ignorare che il censimento annoverava tra i salariati persone che lavoravano al telaio in casa, in quanto come effettivi non erano impiegati nelle campagne. Un errore abbastanza evidente. Ma la sostanziale parità di produzione nascondeva un divario che ha profondamente segnato la storia nazionale: al Nord c’era l’agricoltura ricca, si costruivano ferrovie, si facevano investimenti. Nel Meridione più della metà dei comuni esistenti erano privi di strade, non c’erano mercati né vie di trasporto per i beni. Se a ciò aggiungiamo la precaria o inesistente struttura creditizia e i ritardi nell’istruzione e nell’alfabetizzazione, ci rendiamo conto di come mancassero i prerequisiti per lo sviluppo. Un ritardo acuito dall’accordo in parlamento dell’87, dalla decisione degli agrari del Sud di barattare la promessa di progresso industriale con un innalzamento della tassa sul grano estero, innescando un meccanismo che impediva alla produzione industriale straniera di inserirsi nelle nostre aree. Un’emorragia finanziaria che produsse un impoverimento del Sud ed un arricchimento del Nord».
Quale ruolo ebbe all’epoca l’emigrazione?
«Crispi rispose a questa crisi col piombo, con lo stato di emergenza. E la nostra tragedia divenne paradossalmente un elemento essenziale di sviluppo industriale per il Nord. Un apparato costretto a comprare materie prime e materiale all’estero e, contemporaneamente, grano da Stati terzi, ha una bilancia commerciale costantemente in deficit. Lo sviluppo si sarebbe arrestato perché nessun paese ci avrebbe fatto credito. Furono le rimesse a portare l’oro necessario a “tappare” il buco della bilancia commerciale e l’emigrazione divenne il volano, la possibilità di perseguire lo sviluppo. Abbiamo “dato”, considerandoci italiani».
Veniamo a tempi più recenti
«Già nel dopoguerra il dubbio riguardava un punto: se arriva un flusso finanziario, in mancanza di strutture industriali che lo intercettano, questo flusso si tradurrà per almeno il 60% in domanda ulteriore aggiuntiva nei confronti dell’apparato industriale del nord, senza che tale sforzo per la modernizzazione crei un input per l’investimento sul territorio. La domanda di cemento e di acciaio per la creazione di infrastrutture sarebbe stata destinata alle aziende settentrionali, data la mancanza di imprese capaci di intercettare quella richiesta nel contesto meridionale. Invece si scelse ancora una volta di optare per la valorizzazione del settore agricolo, causando un’altra emorragia. E’ questo che ha portato i nostri nonni ad emigrare nuovamente. Se si incentiva uno sviluppo capitalistico dell’agricoltura, significa una modernizzazione ed un’espulsione di manodopera dalle campagne. Se introduco un trattore che zappa il terreno per 40 ettari in un giorno, eliminerò automaticamente 2-3000 contadini dalle campagne. Ecco spiegato il sistema elefantiaco della burocratizzazione dello Stato, per evitare tensioni sociali attraverso l’occupazione degli espulsi dalle campagne. Ed ecco quindi la politica dell’assistenzialismo come male storico. L’ultimo periodo di espansione si ebbe tra il 1969 ed il 1975, allorquando addirittura il Sud correva nei ritmi di crescita economica grazie al ruolo svolto dall’industria pubblica, in particolare Eni ed Iri. Non a caso il nostro Ministro dell’Economia ancora oggi lamenta l’assenza delle imprese, tentando di salvare la Parmalat o altre realtà con la Cassa Depositi e Prestiti quale surrogato della vecchia Iri. Si risponde ad una verità storica che vede nelle imprese statali non soltanto soggetti capaci di fornire a costi relativamente ridotti pezzi di rinomata qualità (la Finsider con l’acciaio, la Marina Mercantile con la Finmare e la Fincantieri) ma di sfatare un tabù: quello che vuole l’impresa pubblica come anello debole di una catena. Tanto è vero che sono poi state vendute ai privati».
Spesso si sostiene che le misure adottate nei decenni scorsi per favorire lo sviluppo del Sud abbiano avuto come effetto preminente l’incremento del debito pubblico.
«La Lega ha messo in atto una campagna menzognera, affermando che il debito pubblico fosse strettamente correlato agli aiuti per il Mezzogiorno. E’ vero semmai il contrario. Quando avvenne la crisi negli anni’80, lo Stato sostenne le imprese in difficoltà. Per introdurre nuove macchine e stare al passo con la modernizzazione degli impianti occorreva investire ed i tassi d’interesse erano dell’ordine del 20-25%. Fu per questo che Roma dette il credito agevolato al 4%, facendosi carico del 16 restante nel bilancio Statale. Fu questo che portò all’esplosione del debito pubblico: il salvataggio dell’apparato industriale. Vendendo i B.O.T. al 20-22% di tasso d’interesse, gli investitori stranieri concentravano qui la propria attenzione, raddoppiando in meno di cinque anni il debito pubblico al fine di pareggiare sul momento la bilancia dei pagamenti. Mentendo, è cominciata a circolare l’idea che il Sud potesse avvalersi di uno sviluppo auto-propulsivo, puntando solo sulle proprie forze. Una falsità testimoniata dagli anni che abbiamo vissuto e dall’esperienza storica di tutte le realtà europee».
Da dove ripartire?
«Il governo D’Alema aveva stabilito che le spese in conto capitale dovessero essere assegnate per una quota del 45% al Sud. Non capisco come i politici delle nostre regioni siano sordi di fronte a questi richiami. Il tetto era stato definito per legge, facendo sì che a fronte di una riduzione collettiva, la riduzione fosse indistinta per tutti, senza favoritismi di sorta. Oggi il Sud riceve soltanto il 35% delle spese in conto capitale. Esse si dividono in due voci: quelle per infrastrutture (sanità, istruzione, università, cioè infrastrutture essenziali per la creazione dello sviluppo) e compartecipazione negli investimenti da parte dello Stato. Se viene meno tutto ciò, si evincono immediatamente le difficoltà per le nostre aree. Di più: se guardiamo alla spesa allargata, i dati sono ancora più drammatici. Le Ferrovie dello Stato, di tutti i cittadini, risanato il loro bilancio dalla collettività, investono solo il 14% del bilancio nel Sud. Ecco perché noi abbiamo un binario unico e non l’alta velocità. Ancora, si sostiene che la spesa ordinaria sia più al Sud che al Nord. Ebbene nel Meridione, di fronte ad una popolazione del 35%, c’è una spesa corrente del 28,2%».
Come se ne esce?
«Se dobbiamo legare i servizi ai tributi che si danno, o si andrà incontro ad un aumento incredibile della pressione fiscale o – in alternativa – ad un taglio netto dei servizi sociali. Quindi o vengono adottate politiche di sviluppo come quelle varate in Irlanda, come quelle varate in Germania dopo l’unificazione, cioè con una regia centrale capace di togliere le iniquità, oppure andremo di fronte a un periodo di gravi difficoltà. Ci vuole un ente autonomo dal potere politico, dotato di risorse e di capacità strategica tale per supplire alle carenze di capacità propositiva ed elaborativa delle regioni meridionali. La grande incapacità nella gestione dei Fas e nell’elaborazione di progetti di sviluppo a causa della mancanza di personale tecnico testimoniano queste difficoltà. C’è da dire che i fondi aggiuntivi sono spesso sostitutivi dell’intervento ordinario e quindi finiscono per non realizzare l’obiettivo ultimo concentrandosi sull’obiettivo minimo. In un momento di crisi, le regioni meridionali subiscono una contrazione della crescita maggiore. Se diminuisce l’export ed aumenta il tasso di disoccupazione, non possono addossarsi le colpe alle dinamiche locali. E’ una questione di debolezza. Se si intende coprire il buco incrementando il Pil, occorre puntare sulla valorizzazione delle regioni meridionali per avere una crescita equilibrata. Non ci sono interessi egoistici, ma interessi nazionali. La crisi rappresenta la più grande occasione di crescita possibile: invita alla riflessione sulle strategie scelte. Invita, cioè, alla innovazione di prodotti e processi. Risolvere la questione meridionale con ferma volontà politica può significare il riscatto dell’intera economia del Paese, ivi compresa quella settentrionale».