Tutto è iniziato quel giorno, almeno per me. Era il 23 maggio 1992, faceva già caldo e la scuola stava per terminare. Avevo appena finito di fare i compiti e stavo andando a casa della mia amica al piano di sopra. Squillava il telefono ed era andata a rispondere mia madre che improvvisamente ha alzato il tono della voce evidentemente preoccupata. Le avevo chiesto cosa fosse successo, ma lei è stata un po’ elusiva, forse doveva raccogliere le idee per spiegarmi la situazione nel migliore dei modi possibili. Lei si è riattaccata al telefono e io sono andata a casa della mia amica. Alla porta mi ha aperto sua madre in lacrime. «Cosa succede Mara, perché piangi?» le ho chiesto.
« E’ morta Francesca, è morta anche lei»
«Chi Francesca?» e lei è scoppiata nuovamente a piangere a dirotto.
In quel periodo Mara lavorava negli uffici del Tribunale di Palermo, aveva così avuto modo di conoscere di persona il giudice Francesca Morvillo ed era distrutta per la sua tragica scomparsa. Io avevo solo otto anni, l’informazione non era veloce come oggigiorno, e potevo interpretare la realtà solo parlando con la gente. Così scesi in piazzetta sotto casa mia e c’era una gran frenesia, tutti parlavano con tutti e i loro volti erano cupi. Avevo la sensazione che qualcosa di catastrofico si fosse abbattuto su Palermo, ma cosa?
«E’ stata la mafia, con una bomba, ad uccidere il giudice Falcone» mi spiegarono i miei genitori a cena quella sera. “Mafia” era la prima volta che sentivo pronunciare quella parola, eppure è entrata in modo così prepotente nella mia vita. Da quel giorno, infatti, molte cose sono cambiate. Gli adulti erano inconsolabili, la tragedia aveva colpito ognuno di loro. Ma non ne avevo capito la motivazione fino a quando il signore barbuto, che stava sempre seduto con la sedia davanti al portone, mi disse che erano tutti tristi perché avevano perso contro la mafia. «I mafiosi hanno vinto e la società civile ha perso, ancora una volta» mi ha detto. Era questo il sentimento che aleggiava: la rassegnazione. La situazione è precipitata velocemente, il 19 luglio, quando è esplosa un’altra bomba, questa volta destinata al giudice Paolo Borsellino. I palermitani allora finalmente hanno reagito e sono scesi in piazza a manifestare contro la mafia, con quella che è stata chiamata la “rivolta dei lenzuoli”. Lo Stato ha reagito in modo duro e ha mandato l’esercito. Tutta la città e tutta la provincia sono state invase dagli alpini, mandati a presidiare gli obiettivi sensibili, in modo da liberare carabinieri e polizia dai compiti di sorveglianza. L’aria era diventata irrespirabile. L’arrivo dei soldati in qualunque luogo porta le sue conseguenze in termini di reazione psicologica dei residenti e di relazioni umane. La paura in quel periodo fece da padrona tra i cittadini e, intanto, le ragazze intrecciavano rapporti con i giovani alpini, relazioni da cui sono nati tanti figli non riconosciuti, ma anche tante storie d’amore culminate nel matrimonio. Sono nate tante amicizie e anche dissidi. Da tutti i punti di vista, l’arrivo dell’esercito ha cambiato il nostro modo di vivere.
Un altro fenomeno, nel frattempo, stava mettendo in ginocchio la città: la diffusione dell’eroina. Quasi ogni giorno sentivo parlare di giovani che morivano, anche in strada, sulle panchine, ovunque, per overdose. Questi termini erano ben chiari nella mia mente nonostante la giovane età, grazie anche alla scuola che si stava adoperando molto, in quegli anni, per fornire a noi, nuove generazioni, gli strumenti adatti a comprendere la realtà in cui stavamo crescendo . E’ stato proprio in occasione di un incontro a scuola che ho visto per la prima volta don Gino Sacchetti, un prete che viveva nelle zone del palermitano e aveva il merito di aver introdotto a Termini Imerese una comunità per tossicodipendenti, all’interno dell’opera Don Calabria. Non solo don Gino Sacchetti dava fastidio agli affari dei mafiosi recuperando i tossicodipendenti, ma andava pure nelle scuole a parlare di antimafia. Lo faceva senza paura nonostante fosse stato ucciso da poco don Pino Puglisi. Questo atteggiamento ha irritato i mafiosi che hanno iniziato a minacciarlo. Pallottole, agnelli sgozzati davanti la porta e biglietti minatori, a due passi da casa mia. Era il 1995 e i bambini di Palermo sentivano parlare ogni giorno di pallottole inviate per posta, animali sgozzati, morti ammazzati, bombe, droga, overdose, attentati, stragi e vedevano la propria città invasa dall’esercito. Ormai questi argomenti erano entrati nel nostro vivere quotidiano, ma con la spensieratezza che contraddistingue quell’età, non ci facevamo più quasi caso. Continuavamo a vivere come se nulla fosse. Una mattina, però, tutto stava nuovamente per cambiare. 8 luglio 1998: l’esercito ha lasciato la città. Grandi festeggiamenti e grandi tragedie si consumarono quella notte. Io avevo un dubbio che mi attanagliava e feci un paio di domande ad un soldato, euforico per la partenza.
«Come mai andate via proprio adesso? Cosa è cambiato?»
«Non c’è più pericolo adesso, la mafia è stata sconfitta e tutto tornerà ala normalità» mi rispose lui.
Eppure questo dubbio mi attaglia ancora. Qual è stato l’avvenimento che nel 1998 ha portato a far dire ad un soldato che “la mafia era stata sconfitta”. Quale accordo ha portato Palermo verso in nuovo millennio?