Quando si scrive un articolo, è sufficiente rispettare alcuni criteri, essere precisi e sperare di ottenere riscontri positivi cercando di mantenere la maggiore obiettività possibile. Quando però si ha la fortuna di conoscere personalità straordinarie, con le quali si ha il privilegio di condividere momenti ed esperienze importanti, risulta davvero complicato rispettare l’obbligo principe dell’oggettività, mantenendo quel distacco finalizzato a una produzione completa e imparziale.
Questo è quanto capitato a inizio settembre. Inviata da ilcarrettinodelleidee a Siracusa in occasione del dibattito/dialogo sull’Europa tenutosi presso il teatro greco alla presenza del vicepresidente della Commissione Europea Frans Timmermans, ho vissuto quanto viene spesso ignorato. La parte bella, mai termine tanto semplice è stato tanto appropriato, dell’accoglienza ai migranti. O meglio, della ‘seconda accoglienza’. Ciò che accade una volta superata la difficile e spesso tragica fase della prima accoglienza. Ciò che avviene dopo lo sbarco, la registrazione e lo smistamento. La fase in cui da numeri su registri, operazione tanto fredda quanto importante ed essenziale, svolta con la massima cura e delicatezza, si torna ad essere PERSONE.
Al mio arrivo a Siracusa conosco Alessandra Tuzza, la rappresentante di Eurokom EuropeDirect, e alcuni membri dello SPRAR (sistemi di protezione per i richiedenti asilo e per i rifugiati) di Gioiosa Ionica (Reggio Calabria). Tra questi ultimi, i rappresentanti di Recosol, una rete di enti locali impegnati nella seconda accoglienza ai migranti. Assistenti sociali, psicologi, PERSONE la cui vita è interamente dedicata al sostegno e alla cura di quanti arrivano sulle nostre coste perché la loro, di vita, era insostenibile.
Vengo immediatamente accolta nel gruppo. La sensazione è quella di una gita scolastica. Torno bambina. Ma è una gita diversa, interculturale. Conosco gli altri miei compagni di viaggio: 5 ragazzi dall’energia contagiosa e un sorriso abbagliante. Sono Mohammed, Fodie, Sow, Rebar e Bello. Provengono da svariate parti dell’Africa. Chi dal Mali o dal Ghana, ma non è questo ciò che mi importa, quanto vedere come siano esattamente come me. Stranieri in una città straniera, come me. In visita in una città mai vista, come me. Entusiasti per un incontro che si sarebbe tenuto a distanza di qualche ora, esattamente COME ME. Li vedo ridere e scherzare, eccitati per quella gita fuori porta in compagnia dei loro amici. Coloro che hanno accanto non sono la psicologa o l’assistente sociale, ma Paola, Antonio, Stefano, Marta e Carmen. Vivo in prima persona un sistema di accoglienza che abbandona gli imbarazzi o il distacco che stupidamente credevo fossero d’ordinanza.
Mi soffermo a parlare con alcuni assistenti sociali per conoscere meglio il loro operato. L’aspirante giornalista lascia spazio alla ‘me’ curiosa ed entusiasta. Vengo a conoscenza della ‘seconda accoglienza’. Una macchina i cui ingranaggi collaborano in sincronia perfetta per garantire ai migranti un’assistenza completa, dal supporto psicologico alla garanzia di un lavoro, un’abitazione e un’istruzione. Un sistema che accompagna ogni migrante lungo l’intricato iter che vede il passaggio da ‘immigrato’ a ‘rifugiato’, assicurando un inserimento nella comunità tramite progetti lavorativi e culturali, tra cui l’obbligo della frequentazione di corsi di italiano.
Vorrei intervistare i ragazzi, sapere da dove provengono, da cosa fuggivano. Ma mi rendo conto che non è ciò che mi interessa. Non voglio storie di guerra, di fughe, fame e sangue. Voglio andare oltre. Voglio sapere cosa succede una volta che il primo passo è stato fatto. VOGLIO CONOSCERE LE PERSONE DIETRO AI NUMERI. Gli stessi numeri che riecheggiano ad ogni sbarco, dopo il quale sembra che non esistano più. Così parlo con loro, e improvvisamente divengo io l’oggetto del loro interesse. Mi chiedono della mia città, dei miei interessi, del mio lavoro. Ed ecco che spuntano i telefonini e a seguire gli immancabili selfie. Da non amante dell’usanza ormai virale dell’autoscatto che trasforma i social network in patetiche vetrine dell’egocentrismo, mi rendo conto di come per questi 5 ragazzi sia in realtà il modo per fissare nel tempo la loro vittoria. Loro ce l’hanno fatta. Su quegli schermi imprimono, anche solo per il tempo di una condivisione, una gioia che fino a qualche anno prima era utopia. La prima foto, le nostre mani intrecciate.
Cominciamo il nostro tour per Siracusa. Mi incanto come loro davanti alle bellezze che la storia ha tramandato. Sono una turista come loro. STRANIERA COME LORO. E ancora foto, a ogni passo, monumento o chiesa. Percepisco il desiderio quasi compulsivo di fermare la felicità e renderla tangibile, o meglio, condivisibile. Gli accompagnatori ogni tanto li rimproverano bonariamente per frenare un entusiasmo a volte troppo chiassoso. E torno di nuovo bambina pensando ai rimproveri delle maestre durante le gite fuori porta.
Vorrei saperne di più, conoscere i diversi aspetti della loro vita in Calabria. Ma non voglio rubare loro neanche un attimo della loro piccola vacanza. Arriviamo al teatro greco. I loro occhi si spalancano al cospetto di quel gigante di pietra. Chiedono informazioni, manifestano una curiosità che colpisce quanti hanno la fortuna di essere perennemente a contatto con la storia. I membri dello SPRAR spiegano loro a grandi linee le tradizioni della Magna Grecia e il ruolo della Sicilia in epoca imperiale. Fodie mi viene accanto e mi dice: “la tua terra è bellissima! Sei fortunata”.
Sì Fodie. Lo sono!
GS Trischitta