I fatti: nel granaio di Jedwabne vennero bruciati vivi quasi tutti gli ebrei della comunità. Gli assassini: chi commise questa atrocità furono i polacchi; i tedeschi non vi parteciparono. Il movente: i polacchi uccisero i propri concittadini per un radicato antisemitismo che, ad oggi, si tenta ancora di falsare. Quella che seguirà è il racconto di risvolti che pochi conoscono. Quando i tedeschi occuparono Jedwabne nel 1941, essi iniziarono ad uccidere gli ebrei con l’aiuto dei polacchi. Gli ebrei vittime del massacro si contano in più di seicento, ma nessun tedesco viene menzionato nei ricordi dei superstiti in merito ad azioni di violenza nei loro confronti. Anzi, alcuni gendarmi condussero alcune ragazze nel loro presidio per far sì che si salvassero. Quindi, i tedeschi, non fecero altro che “scattare fotografie, per poi mostrare in che modo i polacchi avevano ucciso gli ebrei”. Ma da alcune deposizioni si è potuto evincere che a Jedwabne, in quel giorno, erano presenti molti uomini della Gestapo. Questo era quanto, improvvisamente, gli imputati iniziarono a dichiarare durante i processi. Da ciò è di facile intuizione capire come quelle persone, prive di qualsivoglia protezione, non avrebbero mai testimoniato a sfavore dei propri concittadini. Queste testimonianze, tuttavia, vengono smentite da quelle di chi, lavorando per il presidio, affermò che nessun gendarme era presente quel giorno a Jedwabne. Coloro che furono ascoltati durante i processi non riuscirono a fare i nomi di molti esecutori, poiché essi provenivano in gran numero dai paesi vicini. Purtroppo, molti di essi furono giovani polacchi. L’eccidio di Jedwabne si distinse non soltanto per l’elevato numero di vittime, ma anche di carnefici. Quasi la metà di essi venne identificata per nome. Ma il massacro come si materializzò? Utilizzare parole atte a descrivere tanta atrocità è per me impossibile; ed anche se lo fosse, nessuna di queste riuscirebbe a dare un’immagine dell’orrore di quel giorno. La brutalità delle azioni si sommava alle inascoltabili urla di strazio e di dolore. Il tutto si “consumò” in sole ventiquattro ore, dentro uno spazio non molto grande. Il granaio, appunto, luogo prescelto per il massacro, non distava molto dalla piazza del paese. Anche il cimitero vi era vicino e anch’esso venne utilizzato come luogo delle barbarie. “Perciò tutte le persone dotate di vista, olfatto e udito presenti quel giorno in paese o presero parte o assistettero alla tragica morte degli ebrei di Jedwabne”.
Quello che accadde la mattina del 10 luglio del 1941 a Jedwabne venne preceduto da una convocazione del sindaco Karolak, rivolta a tutti i polacchi maschi adulti, di riunirsi davanti al municipio. Una volta giunti lì, il sindaco in persona con alcuni suoi collaboratori, munirono i polacchi di mazze e di fruste. Poi, gli stessi, impartirono l’ordine di raggruppare tutti gli ebrei e condurli in piazza. Quindi, agli ebrei venne ordinato di andare in piazza per “svolgere alcuni lavori di pulizia”. Dato che non era la prima volta che ciò accadesse, gli ebrei erano convinti di sottoporsi ad ulteriori lavori umilianti. Ma non ci misero molto ad intuire che quel giorno sarebbe stato diverso. I pochi che già fin dal mattino compresero la gravità della situazione, tentarono una fuga. Pochi vi riuscirono, poiché troppi contadini polacchi erano di guardia lungo i confini ed una volta sorpresi li uccidevano in loco. Per giunta, molti dei polacchi erano a cavallo. Karolak ed i suoi fedeli collaboratori fecero in modo che, attraverso il loro controllo, l’eccidio proseguisse nel migliore dei modi, ovvero come tutto era stato stabilito. E quello che non venne ordinato, venne eseguito in maniera autonoma. Una parte degli ebrei venne condotta nel cimitero, vicino al municipio, ed ivi uccisa. Agli uomini venne ordinato di scavare qui delle fosse dove, alla fine del lavoro, vi venivano gettati insieme a quelli già assassinati. Non ci misero molto a capire, i carnefici, che uccidere più di seicento persone in un giorno, era difficile anche per la loro brutalità. Si scelse, allora, di bruciarli tutti insieme. “Prima di togliere loro la vita, gli assassini cercavano in ogni modo di togliere alle vittime la dignità”. Infatti, durante il percorso, i polacchi decisero di improvvisare qualcosa di divertente, visto che ciò che stavano già facendo non li inebriava abbastanza. Venne ordinato alle vittime di far cadere il monumento di Lenin eretto nella piazza durante il terrore sovietico. E a spalla tutti, il rabbino in testa, lo dovettero portare per il paese. Ma ciò non bastava, così, vennero costretti a cantare: “La causa della guerra siamo noi, la guerra si fa per noi”. Nel mentre di tutto questo, gli ebrei venivano condotti al granaio, che nel frattempo era stato cosparso di cherosene. Ecco il metodo più rapido per uccidere tutte insieme oltre seicento persone. Chi vi prese parte si prodigò a spingere dentro coloro che opponevano resistenza. Alcuni ebrei, catturati, furono costretti all’osceno rito di scavarsi la fossa per poi essere uccisi a colpi di randello, mazza e coltello. Una donna, secondo una testimonianza, venne trovata nel fiume con il suo bambino in braccio: gli fu concessa la grazie di scegliere di annegarlo anziché arderlo nel fuoco. Poi, venne condotta anch’ella nel granaio. Si racconta che il fuoco veniva spostato dal vento e quando si spense, la maggior parte dei cadaveri era posta al centro del granaio: era un ammasso di corpi, di cui in parte bruciati, in parte morti per asfissia. Faceva troppo caldo per rallentare i “lavori”: i corpi sarebbero dovuti essere seppelliti al più presto. Ma a Jedwabne non c’era più alcun ebreo a cui ordinare di fare ciò. Quando l’eccidio ebbe fine, i tedeschi ordinarono che i polacchi non avrebbero più ucciso gli ebrei; ripreso il loro ruolo nel paese vi fecero rientrare i pochi superstiti. In seguito, questi vennero trasferiti nel ghetto di Łomża. Dodici persone riuscirono a rimanere in vita, sette dei quali trovarono rifugio presso una famiglia in un villaggio limitrofo.
A settant’anni dal massacro della comunità ebraica di Jedwabne la Polonia prova a raccontare un’altra storia, prova a raccontarla a se stessa, prova a raccontarla ai propri figli… prova a raccontarsi la verità!”