Il ricordo mi assalì all’improvviso. Non so cosa l’avesse provocato, se il flebile tremore delle candele con cui avevo apparecchiato la tavola del Natale o la scena finale di un celebre film di Monicelli che la tv stava passando in quel momento. E chissà da quanto se ne stava lì quel ricordo, quatto quatto, fermo dentro la memoria, in agguato come un gatto, aspettando il momento giusto per uscire fuori e travolgermi in un mare di emozioni. Ricordai istantaneamente la presa salda di mio nonno, quando afferrava la mia manina dicendomi: “andiamo?”. Ogni volta che il nonno diceva così ero certa che mi avrebbe coinvolta in qualche avventura affascinante e divertente. Ma anche che avrei imparato qualcosa di nuovo, un’esperienza istruttiva che mi avrebbe resa più “grande”. Conoscevo benissimo quel mezzo sorriso che si sistemava sul suo viso, la sigaretta tenuta fra le labbra; assumeva un’aria misteriosa e sorniona, come un vecchio gatto che gioca col topolino. Lo guardavo, cercando di indovinare, da qualche impercettibile espressione del suo viso, un segno che mi rivelasse quale sorpresa avesse in serbo per me questa volta.
Ma non c’era mai verso che riuscissi a spuntarla: il nonno era molto abile a non tradirsi e rispondeva alle mie domande insistenti mimando con le mani l’atto di cucirsi la bocca; oppure con un sorriso, insegnandomi così l’arte della paziente attesa. Forse in quegli momenti avevamo la stessa età, io e lui: l’espressione di sognante estaticità che mi si dipingeva in viso “dopo”, era l’attimo che ci vedeva felici all’unisono. Adesso, da vecchia, mi accorgo di quanto amore avesse per me in quei regali così speciali: erano i doni della conoscenza. Gli unici che le sue magre finanze potessero permettersi e il cui valore dura l’arco di un’intera vita e anche più: il nonno mi stava insegnando a vivere. E laddove la sua preparazione culturale non riusciva ad arrivare, allora si limitava a mostrarmi la strada da percorrere, perchè potessi superarlo, migliorandomi. Fece questo instancabilmente, finchè fu in vita. Quella sera, dopo la solita cena frugale, mi invitò ad uscire con lui. Era inverno, ricordo che faceva freddo. Misi il mio cappottino e mi aggrappai a quell’àncora sicura che era la sua mano. Non siamo andati molto lontano: ci siamo fermati poche case più in là rispetto alla nostra. Il vento che saliva dal mare mi metteva in bocca un sapore pungente e salato, di alghe secche. Nessuna luce ci illuminava il cammino. Tutt’intorno il silenzio. Il paese dormiva già. Il nonno bussò alla porta. Passarono alcuni istanti prima che una voce di pozzo ci invitasse ad entrare. Quando la aprimmo feci fatica a vedere e a comprendere. L’unica stanza di quella casa era occupata da un letto enorme, altissimo, di cui vedevo solo un fianco. Spostata di pochi centimetri, una vecchia poltrona tappezzata con una stoffa a fiori: il verde e il rosa erano i colori dominanti. Davanti la poltrona un braciere acceso e di fianco, sul comodino, una grossa candela come unica fonte di luce. Il resto della stanza era occupata da colonne, che ai miei pochi anni sembrarono altissime, fatte di libri di vari spessori. Libri. Libri dappertutto. Libri ovunque.
E polvere. I piedi passavano a stento dentro quei sentieri di carta. Gli occhi si perdevano in quelle altezze asimmetriche e misteriose. Posai lo sguardo sull’uomo, catturata dalla voce del nonno che lo salutava con affetto e anche con una certa riverenza. Non aveva l’aspetto troppo curato, ma aveva i capelli ondulati e una barba lunga e bianchissima che gli copriva buona parte del viso. Cercai di indovinare dove avesse la bocca, seguendo il fiato che si condensava nell’aria fredda della stanza. L’uomo si mise a sedere sulla sua poltrona e indicò due sgabelli rettangolari per farci accomodare. Versò del vino per sè e per mio nonno. Lo bevvero tutto d’un fiato, svuotando di colpo il bicchiere. Il nonno rise di gusto, l’uomo solo appena. Si scambiarono qualche parola, l’uomo parlava lentamente come se pesasse ogni singola sillaba di ciascuna parola. Poi tacque, aprì il libro che aveva sistemato sulle gambe e iniziò a leggere con voce suadente per noi due. Guardai il nonno e mi accorsi del suo sguardo emozionato, lui che non sapeva leggere, ascoltava rapito. Nei suoi occhi vidi scorrere, come dentro la sequenza di un film, le avventure che il vecchio stava narrando, traducendo in suoni comprensibili ciò che nè io nè il nonno, per motivi diversi, sapevamo interpretare. La voce di pozzo stava leggendo di gesta epiche, di guerre, di amori e di pazzie. Conobbi così, per la prima volta, L’Orlando Furioso. Quella sera, rientrando a casa, non dissimo nulla. Dentro le orecchie c’era troppa bellezza per violarla con le nostre parole. Dopo di allora, ogni volta che i miei giochi di strada mi portavano vicino alla porta di quell’uomo, la guardavo per vedere se si affacciasse, magari anche solo per rimproverarci del nostro baccano infantile. Ma non lo vidi mai venire fuori.
Un mattino sentii delle voci concitate e parecchi uomini che correvano; giù, verso la fine della strada. Pure il nonno si mise a correre. Si affacciarono anche i miei ed era un rincorrersi di domande tutte uguali: ” cosa è successo?” – “che è capitato?” – “cosa è stato?”. Sentii la puzza acre del fumo e uomini urlare di portare secchi d’acqua, che facessero presto che non c’era tempo da perdere. Tutti gli abitanti della strada si erano riversati fuori e ciascuno dava una mano come poteva, portando catini e secchi colmi d’acqua. Erano tutti concentrati su “quella” porta. Quando riuscirono a spegnere l’incendio e a farsi largo fra le colonne di fumo, cominciarono a uscire lentamente da quella casa. Con calma, senza più nessuna fretta, i volti sconfitti. Fu così che se ne andò l’uomo di carta, arso vivo dalla passione bruciante dei suoi libri.
(Serafina Ignoto)