La citta’ vista da una “straniera”: intervista a Roberta Torre

Una conversazione lieve, fluida, quella con Roberta Torre. Quello che emerge è uno sguardo

disincantato e lucido non solo su Palermo, ma anche sul nostro Paese e sulla cultura dominante

della nostra società.

Perché si sceglie Palermo come luogo di lavoro artistico?

Sono molti anni che vivo qui. Questo è un luogo di grandi idee, è il posto del mio immaginario, ma

è sempre più difficile dargli corpo, farle vivere. Qui nascono i miei progetti ma per poterli realizzare

bisogna farlo altrove, lontano dalla Sicilia.

Franco Scaldati diceva che a Palermo si è consumata una violenza molto più sottile di quella eclatante ed esplicita nata nel periodo post bellico e che ha generato grosse sacche di marginalità sociale in cui imperava la fame. Sosteneva che la rioccupazione del centro storico da parte della borghesia odierna, di quelle zone che una volta erano popolari, ha violentato e snaturato l’assetto sociale di Palermo. Tu cosa ne pensi?

Vivo a Palermo da molti anni, ma rimango pur sempre una forestiera; non ho un vissuto tale da

conoscere la città descritta da Scaldati, non fa parte del mio vissuto; questo mi ha però permesso di

avere una visione oggettiva di questa città che a volte vivo con insofferenza. E’ come se Palermo

vivesse con indifferenza le sue intelligenze, le sue eccellenze, i suoi artisti. Franco non ha mai avuto

il giusto spazio, il giusto riconoscimento. Questa è una città spesso indifferente.

“Romanzo della Sicilia che cambia” è il docu-film a cui stai lavorando. Di cosa si tratta?

Sto raccogliendo alcune interessanti testimonianze sul rapporto tra edilizia e legalità; le storie di

tante persone che lavorano per un cambiamento positivo di questa regione, a tanti anni dalle stragi.

E’ il racconto di un cambiamento verso uno stile improntato alla legalità, toccando tematiche e

settori cruciali per l’economia di questa terra come l’edilizia, per esempio. E così sto raccogliendo

storie di intimidazioni anche pesanti, di attentati subiti ma che non hanno scoraggiato queste

persone. Sono storie di ribellione contro il potere mafioso, spesso vissuto in solitudine.

A proposito di bellezza femminile e della cancellazione dai palinsesti del concorso di Miss Italia, hai recentemente dichiarato che “l’estetica va con l’etica”. Cioè?

Beh, il riferimento è fin troppo chiaro. Abbiamo assistito a un’omologazione dei canoni della

bellezza, per cui vediamo corpi tutti uguali, plastificati e che hanno reso la donna schiava,

prigioniera di quei canoni, di quei modelli. Per fortuna le donne sono tanto altro. Non ho mai

pensato alla bellezza secondo i canoni ordinari, classicamente intesi, anche se è normale che questi

cambino con la storia del nostro tempo.

La nostra è una società permeata da un modello che vede le donne ancora come oggetti, in cui domina una concezione proprietaria del corpo femminile. Cosa, secondo te, non è passato del messaggio del movimento femminista nato negli anni ’70 se siamo, ancora oggi, costretti a registrare una escalation dei femminicidi?

A me pare che gli uomini siano, ancora oggi, storditi da tutto quello che gli succede attorno.

Non lo comprendono. Certo, il rapporto uomo-donna è un mistero e tale è destinato a rimanere

ancora a lungo secondo me. Ma è anche un fatto profondamente culturale, radicato e che nasce

dall’educazione ricevuta.

Parli di uomini-mammoni?

Sì. il fatto è che gli uomini sono stati educati ad essere accuditi per cui passano dal rapporto con

la mamma a quello con la propria donna concependolo come una continuità naturale. Non c’è

interruzione, né differenza. Ben altra cosa è, ovviamente, quello di prendersi cura l’uno dell’altra che

rimane un atto d’amore. Gli uomini hanno finito per confondere questi due concetti: l’accudimento

materno col prendersi cura di un compagno.

Sta per partire la seconda parte di “Trash the dress”. Di cosa si tratta?

E’ un laboratorio teatrale che andrà a costituire frammenti di uno spettacolo che da questo

laboratorio nascerà, passando per la distruzione dell’abito da sposa visto come simbolo femminile,

un viaggio dentro l’immaginario femminile con tutto quello che questo porta con sé: dalla maternità

al cibo diviso fra tutti passando anche attraverso le contraddizioni, spesso molto forti, che esso

simboleggia. Nella prima parte di “Trash the dress” si è generata una messinscena molto forte,

potente. E, inoltre, grazie alla produzione di Valeria Orani, andrà in giro anche in altre città italiane

come Roma e Milano.