L’economia illegale e sommersa rappresenta una fetta consistente del “valore” prodotto dal nostro Paese. Verità ormai assodata, tanto da aver portato anche l’Istituto Nazionale di Statistica a rivedere al rialzo le stime del Pil a partire dal 2011. E se il prodotto di attività illecite – prostituzione, vendita di droghe e contrabbando di sigarette – o “in nero” arriva ad incidere per percentuali a doppia cifra sull’economia italiana – i primissimi dati diffusi dall’Istat parlavano di 12,4% del Pil per oltre 200 miliardi nel solo 2011 -, l’attività di sequestro e confisca di beni derivanti da attività criminali rappresenta il fiore all’occhiello nella repressione e nel recupero di valore economico – e credibilità sociale – per lo Stato.
Non solo denaro, ma soprattutto i simboli tangibili e visibili dello strapotere mafioso economico e sociale: beni immobili e terreni, ma anche aziende. L’Anbsc- Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata – fotografa la situazione al 7 gennaio 2013: 11.237 immobili e 1707 aziende, presenti su tutto il territorio nazionale, ad esclusione della sola Valle d’Aosta, anche se prevalente è la localizzazione delle regioni meridionali. E se l’analisi dettagliata dello stato attuale è contenuta nel libro “L’economia dei beni confiscati” edito da Franco Angeli e scritto a quattro mani dagli economisti messinesi Piero David e Ferdinando Ofria, un dibattito sulle criticità della gestione è stato promosso da Labdem Sicilia e l’Ordine degli avvocati di Messina. Alla presenza dell’on. Salvo Andò, presidente della Fondazione Nuovo Mezzogiorno, e dell’on. Fabrizio Ferrandelli, vicepresidente della Commissione Antimafia dell’Ars (Assemblea Regionale Siciliana), numerosi gli interrogativi e le proposte per sopperire a quello che sostanzialmente appare come un fallimento nelle opportunità di reinserire il patrimonio confiscato all’interno del circuito dell’economia legale, dando quindi ossigeno soprattutto ai territori meridionali.
Se il patrimonio immobiliare confiscato appare per il 65% gravato da criticità – ipoteche, problemi di occupabilità del bene e normativa stringente che consente una vendita residuale soltanto ad enti pubblici – e risulta di fatto immobilizzato, preoccupa soprattutto che solo il 4% delle aziende entrate nella gestione dell’Agenzia risulti ad oggi attivo. Blocco del credito bancario, riduzione delle commesse ed eccessivi costi di gestione dovuti al sovradimensionamento delle aziende – ricordiamo che scopo della criminalità organizzata è quello di creare consenso – fanno il paio con la tendenza a mettere in liquidazione queste realtà, piuttosto che a gestirle con criterio manageriale. Un’occasione persa per convertire le attività economiche e creare nuovo valore, ma anche «un grosso rischio di dar l’impressione ai dipendenti delle aziende ed al tessuto sociale locale in generale, che la criminalità organizzata sia in grado di amministrare meglio delle istituzioni pubbliche», come sottolineato da Gaetano Giunta, presidente della Fondazione di Comunità. Alimentando così, anche in via indiretta, il consenso verso la mafia.
Concorde l’opinione che tra le principali cause vi sia la mancanza di competenze specifiche degli amministratori giudiziari, competenti avvocati o commercialisti, ma privi della visione manageriale necessaria per rendere produttive realtà così complesse. Dovrebbe quindi essere avviata una nuova fase legislativa ed organizzativa, magari prevedendo di «dare in gestione ad imprenditori con specifici requisiti morali e professionali l’azienda, con il preciso scopo di reinserirla nel mercato in modo competitivo», come proposto da Maurizio Scaglione, presidente dell’associazione Secolo Ventuno – uomini liberi, libera impresa.
Lo strapotere della mafia si combatte su diversi piani: a scuola, in famiglia, nelle istituzioni. Ma anche sul piano economico. La “mafia imprenditrice” fa ormai leva sul potere economico per condizionare ed acquisire prestigio sociale. E la confisca dei beni rappresenta una tangibile sconfitta di quel prestigio, soprattutto in aree economicamente deboli e quindi più fragili alla promessa di una autonomia lavorativa. Ma se lo Stato fallisce nel ristabilire le normali condizioni di concorrenza e nel tutelare il cittadino debole, il rischio di alimentare ancor di più la forza sociale delle organizzazioni criminali è dietro l’angolo.
Alba Marino