Ilaria non aveva neanche
diciassette anni.
E’ questa l’unica, inconfutabile certezza. Settimane di dibattiti più o meno consoni al pudore che si confà alla morte, di commenti più o meno appropriati, di servizi giornalistici su responsabili e colpevoli, ci hanno solo rivelato che Ilaria era un ‘adolescente.
Figlia di una città disamorevole, sfortunata e bellissima che oggi, a riflettori spenti si perde nelle chiacchiere mediatiche su munnizza, calcio e cinghiali ma che si è già scordata di lei, come se non avesse perso nessuno o più in generale, come se non avesse perso, come spesso accade.
Abbiamo scelto di fare silenzio, proprio per quel pudore, convinti che le sensazioni debbano decantare per perdere l’ asprezza dell’immediatezza.
L’asprezza oggi, si è tramutata in amarezza. Ci troviamo dinnanzi ad una ragazzina morta per un mix di “pasticche ed alcol”. E quella stessa amarezza trasforma ai nostri occhi Ilaria “la trasgressiva coi piercing”, in Ilaria “la fragile” che diventa l’emblema, il simbolo, di quella perdita del senso di comunità che pervade la realtà mutabile in cui siamo immersi e che si insinua subdolamente tra le pieghe del nostro vivere comune.
Perché se è vero l’assunto che ogni comunità dovrebbe riposare su fondamenta affettive e su una connessione emotiva condivisa è altrettanto crudelmente vero che questa storia ci pone degli interrogativi che non possono essere ignorati. Non arriveremo mai ad una verità assoluta. Non ne abbiamo la pretesa, e chi nei giorni seguenti alla fine della sua vita ci ha provato ha fatto un ridicolo buco nell’acqua. Eppure è impossibile chiudere gli occhi. Sarebbe pilatesco, ed insopportabile. E sospendere il giudizio non equivale a non tentare di comprendere.
Quanto apparteneva Ilaria a questa comunità? Ne era parte integrante o ci viveva dentro come un’infiltrata? Collocarsi utilmente in questa società dovrebbe essere una prerogativa di tutti e come sosteneva il buon Havinghurst, acquisire un ruolo sociale è tra i compiti di sviluppo assegnati dalla vita agli adolescenti.
E in che modo Ilaria sperimentava nella quotidianità del suo vivere di sedicenne la possibilità e l’opportunità del cambiamento, assodato che non esiste cambiamento senza conflitto, anzi, per dirla con Erikson, senza un dilemma psicosociale?
Quali e quanti bisogni soddisfaceva la sua rete familiare e amicale? Il bisogno di cura, di sostegno nelle scelte, di orientamento a cui ha diritto ogni adolescente? Perché per adempiere agli impegni della crescita gli adolescenti hanno bisogno di conquistarsi quel senso di competenza ed autostima che necessita dell’aiuto di noi adulti. L’adolescenza ha di base quella sorta di insicurezza emozionale infatti, che disorienta, rende insicuri, incerti. La famiglia degli affetti allora dovrebbe accorrere ed occorrere. Ma c’è un mutismo tra generazioni, tra padri e figli, tra educatori ed educanti, tra mondo dei grandi e mondo dei ragazzi. E spesso non solo i ragazzi, ma anche noi adulti siamo spaventati davanti alla metamorfosi, al cambiamento, che non è sempre facile da comprendere ed accogliere.
In quel capolavoro di cinematografia che è Paranoid Park, Alex, anche lui sedicenne, affida alla scrittura il compito di custodire il terribile segreto che lo angoscia, l’immagine dell’agente tranciato in due da un treno in corsa, mentre insegue lui ed i suoi amici che, alla ricerca di emozioni forti, saltano con lo skateboard sui treni merci in transito.
Ilaria affidava molti dei suoi pensieri a Facebook. “Siamo nati per morire con un urlo dentro che nessuno può sentire” è la frase di una canzone che Ilaria amava.
Avremmo dovuto spiegarle che siamo nati per vivere e che l’urlo va urlato, altrimenti nessuno ti può sentire.
Ilaria alla ricerca. Di sé stessa, come tutti gli adolescenti. Ilaria che non sapeva che quella notte sarebbe morta. L’ecstasy non uccide, così probabilmente le avevano detto, L’ecstasy ti fa solo stare su di giri.
E così la prossimità alle sostanze da “sballo” è dilagante e l’ecstasy è la droga più accessibile insieme ad hashish e marijuana.
E’ il non-senso del vivere. Se vuoi star bene devi mandar giù una pasticca che può darti la morte. Ed in questo non-senso è facile cadere, mentre gli altri stiamo a guardare.
“Non buttarti via, non farti del male perché, così facendo, colpisci il mondo intero. Non ti appartieni, sei. Sei come è il mondo attorno a te. Sei mistero, e nel mistero del tuo esserci forse vali di più di quanto tu immagini” (V. Andreoli).
Ti sei buttata via, facendoci del male. Valevi moltissimo, ma forse non lo sapevi. E noi non siamo stati bravi a fartelo capire. Eravamo distratti. E per questo abbiamo perso, tutti.
Angela L. Di Fazio
Sociologa, Esperta in politiche sociali e progettazione sociale