Dopo la rassegna “Frammenti al femminile” torna a TeatroCittà lo spettacolo di Santo Nicito
sulla storia di Anna Maria Scarfò. Uno stupro del branco, il rifiuto del paese,
l’omertà della Chiesa. E la sua forza di denunciare.
di Anna Maria Bruni
Una scena scarna, musiche dal ritmo ossessivo, luci che si alternano ad un buio che è quello dell’anima. Angela Ieracitano e Cristina Merenda, le protagoniste dello spettacolo, incarnano una vicenda che solo la denuncia rende sopportabile e, nella realtà, la condanna definitiva in cassazione degli stupratori (quattro anni) e poi del prete (un anno), per omissione di soccorso. Ma la giustizia è solo un aspetto di un percorso ben più lungo per cambiare una cultura. Le interviste che Nadia Toffa delle Iene ha realizzato nel paese dove si è svolta la vicenda sono esemplari dell’arretratezza nel quale il nostro paese sembra sprofondare sempre più. Ne parliamo con il regista.
Perché hai deciso di fare questo spettacolo?
L’avventura è cominciata dalla lettura di Malanova, il libro di Anna Maria Scarfò scritto con la giornalista Cristina Zagaria. Contemporaneamente durante i laboratori di teatro incontravo donne che, in diversi casi, nei momenti di racconto, narravano di violenze subite. Allora mi sono detto: questa storia la devo raccontare. Ho preso il libro, ho chiamato Cristina (Merenda, una delle due interpreti) e le ho proposto di leggerlo: lei lo ha divorato ed ha immediatamente accettato di lavorare allo spettacolo. E lo stesso è stato per Angela (Ieracitano). Così abbiamo cominciato a raccogliere documenti sulla vicenda di Anna Maria, utilizzando anche le sue interviste. Quello è stato il materiale che abbiamo elaborato e dal quale è venuto fuori lo spettacolo Gramigna. E Gramigna perché quest’erba tu la puoi pure tagliare, ma quella ricresce sempre, e così deve essere il nostro spettacolo: un pugno allo stomaco, che vorresti cancellare ma che poi ti torna in mente come un messaggio di libertà, per dire alle donne che non devono subire ma che devono reagire. Perché Gramigna è reazione, non solo denuncia. Il debutto, a maggio 2015 al Teatro di Siracusa, ce lo ha confermato con il sold out. Poi ci ha contattato un’associazione femminista di Reggio per avviare una collaborazione, poi abbiamo replicato al Teatro Comunale, e anche questa volta, 800 posti, abbiamo fatto il tutto esaurito.
E lì è venuta Anna Maria, e la cosa più bella è stata che pur non avendola mai incontrata, lei mi ha detto: “su questo palco c’è Anna”. E questa è la sostanza. E che per lei è una sponda in più dopo il suo libro, i convegni, gli incontri nelle scuole, per continuare a parlare alle altre donne, a indurle a denunciare, a desiderare di sentirsi libere. “Come ho fatto io, a 15 anni”. Ci tiene a sottolineare, sicuramente perché dà forza. Paradossalmente proprio perché “ogni volta è un turbamento – dice – perché è rivivere un dolore devastante”, ma a maggior ragione è necessario “capire quanto sia importante liberarsi denunciando”. “Perché la libertà è la cosa più bella che la vita ci può dare”.
In terapia da tre anni, “ogni volta che ne parlo è un trauma”. Che però oggi riesce a raccontare, anche se con gli occhi lucidi, te lo dice: “ho vissuto momenti bruttissimi. I miei aguzzini non hanno avuto pietà su di me, non mi hanno risparmiato violenze sessuali e botte, sono stata oggetto di scambio per risolvere favori (sono coinvolti anche ‘ndranghetisti, ndr) e se pensi che avevo 13 anni, e che questo è avvenuto per 3 anni, (anche perché il giorno dopo la prima violenza è andata a chiedere aiuto al parroco, e tutto ciò che ha ottenuto è il consiglio di non fare uno scandalo, ndr) tutto questo è stato devastante. Ma questo io l’ho trasformato in forza, per Anna, oggi per Anna Maria, e per le altre donne. A cominciare da mia sorella, che sono riuscita a proteggere trovando la forza di denunciare. E oggi per le ragazze che incontro nelle scuole. Dopo l’ultimo incontro ho saputo che quattro ragazze hanno denunciato. E vedo che qualcosa succede sempre. Perciò voglio continuare ad essere la voce per le donne che ne hanno bisogno. Perché aiutando loro ho aiutato me”. Anche nella possibilità di recuperare la capacità di credere, e di poter realizzare i propri obiettivi. Anna Maria a 28 anni a giugno darà gli esami per realizzare una professione oggi molto fashion, la parrucchiera. E comincia a credere di poter “riuscire ad amare ed essere amata”.
E’ evidente quanto questo lavoro ti abbia avvicinato a lei, come sia diventata la stessa battaglia: riuscite a far girare questo lavoro in Calabria?
Assolutamente sì, ma naturalmente non solo, parteciperemo senz’altro ad altri festival come quello con cui siamo arrivati a TeatroCittà (“Frammenti al femminile”, ndr). Sappiamo che lo spettacolo ha un impatto molto forte, non è facile da digerire immediatamente, però il pubblico più giovane, e soprattutto le ragazze, reagiscono abbracciando Cristina e ad Angela, alla fine dello spettacolo. E penso che questo sia il messaggio più bello. Ma non solo le donne, sono tanti anche gli uomini. Penso che sia molto importante arrivare ai ragazzi, infatti nelle scuole quando facciamo le matinée l’impatto più potente ce l’abbiamo con loro. Perché le donne si uniscono, si abbracciano, gli uomini non stanno insieme, non parlano delle loro emozioni; vedere dei ragazzi piangere vuol dire che allora funziona.
Dimmi qualcosa di te, come hai cominciato?
Ho cominciato ormai quasi vent’anni fa, con una compagnia di Reggio, Proskenion, e frequentando poi diverse sessioni con Eugenio Barba. Da lì ho incontrato il clown e il mio grande maestro Endrius Colombaioni, e poi ho cominciato a contaminare la tradizione del circo con il mondo del teatro più classico. Ho frequentato la scuola di Girona del Centro ricerca internazionale arti circensi, continuato le sessioni con Barba, Julia Varley, e Debora Hunt in Calabria durante l’Università del Teatro Eurasiano…
E poi sei diventato regista…
Sì, ma continuo anche a fare l’attore. Gramigna è il mio settimo spettacolo.
Sempre teatro civile?
Sì, adoro portare gli spettacoli in strada. Amo i teatri, però le poltrone rosse le vivo come una gabbia. La strada è magica perché incontri continuamente persone diverse, sguardi, sensazioni, odori, quartieri! Quartieri come questo, dove nasce TeatroCittà, dove c’è l’esigenza reale di andare a raccontare delle storie, e prendere quelle del territorio, e metterle in scena, anche con una semplice valigia di cartone. Mettersi in strada e raccontare.
Sono molto d’accordo, ma pensi che siano questi gli strumenti per cambiare una cultura, oggi?
Penso di sì, altrimenti non sarei qui. Noi siamo attuatori di cambiamento, i registi, gli attori tutti quelli che fanno arte utilizzano questo strumento per andare a cercare di modificare le cose. Il nostro impegno è quello, io ci credo, nonostante molte volte ci vogliano tantissimi anni prima che accada. Ma molti personaggi sono d’esempio – Dario Fo! – o i giullari, figure determinanti contro il potere perché denunciavano le malefatte dei potenti, e molte volte il re li faceva inchiodare con la lingua al portone della piazza principale. Ci sentiamo giullari 2.0.
E siamo pronti a correre il rischio…
Senza alcun problema.