La mafia e’ silenzio, il silenzio e’ violenza.

Nell’aula congressi del dipartimento di Civiltà Antiche e moderne dell’Università di Messina, ha avuto luogo il penultimo degli incontri organizzati da il carrettino delle idee sul tema della legalità nei luoghi dell’istruzione. Nella figura di Claudia Benassai , coordinatrice ed organizzatrice, abbiamo voluto parlare di mafia.  Mafia da vedere, da raccontare, da ricordare, da combattere.

Nel porgere i saluti la prof.ssa Marianna Gensabella, direttrice del dipartimento, precisa:  “Il potere non vuole parola”.  Così contro il silenzio della mafia sono intervenuti : il Prof. Marco Centrorrino, i giornalisti Nuccio Anselmo, Nino Amadore e Lirio Abbate, inviato de” L’espresso””, minacciato di morte per l’attività svolta contro la criminalità organizzata, attualmente sotto scorta. Ognuno di loro ha messo in luce il valore dell’iniziativa sottolineando con la propria esperienza quanto coraggio sia necessario per fare giornalismo d’inchiesta, parlare degli assassini e degli assassinati,  di politica legata al malaffare. Tanti, troppi colleghi ci hanno lasciato la pelle. Mario Francese uno su tutti,  faceva il suo mestiere, cronaca giudiziaria dal 1968. Era a conoscenza di tanti loschi affari della mafia del tempo. Si occupò del processo dei Corleonesi e fu l’unico giornalista ad intervistare Ninetta Bagarella moglie del boss Riina. Mosse indagini di grande valenza e approfondite inchieste, interessanti  spaccati di ‘vita mafiosa’ .

”Mario Francese è stato ammazzato perché aveva capito prima e ricostruito dopo” sostiene Nino Amadore. Fu assassinato a Palermo davanti alla propria abitazione nel gennaio del 1979. Trent’anni dopo sarà il figlio, Giuseppe, a tirare fuori dal silenzio la morte del padre, il caso verrà riaperto e scoppierà la bolla silenziosa che aveva avvolto la morte del giornalista. Venuto fuori il marcio, Giuseppe si suicida, diventando un’altra vittima di mafia.

Le voci si alternano, i pareri si confrontano, i toni si fanno sempre più accesi e riecheggiano nell’aula come colpi di pistola le parole legalità e giustizia. All’interno della società e quindi dell’opinione pubblica ci sono evidenti  segni di sfiducia e paura, che sfociano e si manifestano in una ‘omertà di massa’.

Dobbiamo parlarne.

Dobbiamo parlare di Messina, ‘provincia babba ‘, parlare di come invece essa sia stata e sia forse tutt’oggi capitale del potere nero,  tanti nomi e fatti storici sono legati a questa città da un filo conduttore che passa dal telecomando dell’attentato al Giudice Falcone, costruito e consegnato a Messina,  alla latitanza di boss come lo stesso Totò Riina presso la nostra provincia. Un ’etichetta che sotto nasconde ben altre verità.

Compito del giornalista e di chi produce e diffonde informazione quello di indagare e accertarsi della provenienza di ogni notizia, di aver cognizione ed essere a conoscenza della reale versione dei fatti. Eppure talvolta erroneamente non viene messo in atto questo meccanismo ed è il caso di Ferdinando Domè.

In mezzo a quei coraggiosi giornalisti, un volto, segnato dalla perdita, dall’umiliazione. Al microfono la voce fioca, tremante, “le lacrime non riesco mai a trattenerle” sorride triste. Racconta la sua storia, la storia di suo padre, vittima innocente della mafia prima e dei giornali dopo. Giovanni Domé, operaio edile, fu assassinato per mano di Bernardo Provenzano durante il massacro di Viale Lazio; era lì che andava  a prendere lo stipendio come ogni settimana, nei capannoni della ditta, che quella maledetta sera ospitavano i peggiori mafiosi in circolazione. “Mio padre è stato ucciso due volte!” tuona durante il racconto, “I giornalisti hanno costruito e calunniato, ma lui era un brav’uomo” . ‘Facente parte della cosca’ oppure ‘uno dei mafiosi’ così i giornali avevano etichettato suo padre. Racconta di un infanzia turbata, di una famiglia povera, abbandonata e di una reputazione infangata, di un dolore che va oltre la morte.

È il suo il caso di un giornalismo noncurante, spietato, ed ecco che la voce è segno di violenza al pari del silenzio.

A Franco Cucinotta sono dedicate le conclusioni del dibattito.

Ringraziamo l’Università degli Studi di Messina per averci dato la possibilità di accendere i microfoni, onorati dalle parole del Magnifico Rettore prof. Navarra: “L’università va intesa come uno spazio libero, fatto di idee. È un ottimo palcoscenico per aprirsi al confronto ed affrontare tematiche importanti come quelle  della legalità e della giustizia. È un momento educativo fondamentale e mai come ora abbiamo bisogno degli organi di informazione, abbiamo bisogno anche e soprattutto del vostro sostegno.”.

Giovanna Romano