La mafia non cambia pelle

Chiacchiere intrise di retorica e scandali. Un binomio da cui non è possibile prescindere quando andiamo a intervistare negli uffici della D.n.a. in via Giulia, a Roma, Roberto Pennisi, sostituto Procuratore nazionale antimafia. Appena accenniamo all’argomento, Pennisi rispolvera la lezione di Leonardo Sciascia, che si è dimostrato un lucido profeta: “Lo scrittore di Racalmuto aveva capito tutto. Ma della sua lezione tengo impressi non solo l’affondo sui professionisti dell’antimafia, ma anche la suddivisione netta tra la mafia d’affari e la criminalità. La prima si esprime in lingua ed è la più potente, mentre l’altra si esprime con il dialetto”.

Oggi, però, a fallire non è soltanto parte dell’antimafia, ma anche il racconto sull’evoluzione del fenomeno, che manca di descrizioni puntuali ed esatte, tanto che si è determinata una forte discrasia tra la mafia reale e quella rappresentata. Un abisso che produce nella società civile false credenze: “La ’ndrangheta è diversa dalle costruzioni mediatiche: ancora si crede che sia usato il rituale della ‘punciuta’. Ora, è vero che c’è chi si riunisce sotto un fico, ma c’è chi programma gli affari. Bisogna stare sul serio attenti e cercare un nuovo indirizzo. Perché ci si ostina a lavorare sul passato?”. In questo quadro generale, un altro errore che spesso si commette è di affermare che, finito il periodo delle stragi, la mafia abbia cambiato pelle. Infatti, il sistema mafioso, che detta leggi e sbarra il futuro agli onesti, non si è mai inabissato, ma “come la balena che si inabissa dopo aver respirato per andare a mangiare, Cosa nostra è lievitata”.

Fra qualche giorno, la procura nazionale renderà note tramite una pubblica relazione queste dinamiche, che servono a fare ordine e a tracciare eventualmente nuovi percorsi di contrasto e occasioni di dibattito. Qualche linea impressa su carta ci è stata anticipata: “Ho coniato un termine che descrive le ‘nuove’ dinamiche: nella prossima relazione parlo di interscambiabilità delle dinamiche mafiose. In fondo, non c’è mai nulla di originale in questi metodi di azione. Negli anni ’50, Cosa nostra si era specializzata nei sequestri di persona, mentre in Calabria imperavano le guardanìe abusive. Dopo questo periodo, la Sicilia diventava la signora della droga. Negli anni Ottanta, ad esempio, Alcamo ne custodiva una raffineria. Nel frattempo, in Calabria si era inaugurata la stagione dei sequestri. Anche con la droga ad un certo punto si è verificato una passaggio di consegne: i traffici si passano quando in un determinato territorio vengono individuate le responsabilità. Tutto questo è frutto di una strategia: si passa agli amici fidati il centro dell’affare. I contorni sfuggono, ma non c’è niente di lasciato alla casualità. Bisogna capire chi regge questo meccanismo”.

Roberto Pennisi ritiene anche che si debbano risparmiare le parole inutili per trovare quelle necessarie a mantenere un vantaggio sui mafiosi, perché la vera lotta finirà quando si individuerà la ragione del male. In questa ricerca, quello che è chiaro è che “bisogna tornare a lavorare in silenzio, perché il rispetto della legge non è una mercanzia”. I punti qui anticipati, come ha sottolineato il magstrato in chiusura dell’intervista, saranno meglio chiariti nelle relazioni annuali. Intanto, ci ha lasciato con una frase di Eraclito che racchiude benissimo l’essenza della giustizia: “Chi cerca la verità deve essere capace di accettare quello che non si aspetta di trovare”.

Claudia Benassai