La miopia sulla follia

E’ stato presentato sabato sera, a Barcellona Pozzo di Gotto, “La semimbecille e altre storie”, un libro scritto da Stefania Ferraro ed edito da Meltemi Linee.
Alla presenza di un attento pubblico, Tindaro Bellinvia (Migralab A. Sayad) ed Elisa Calabrò (Ossidi di Ferro) hanno introdotto le storie raccontate all’interno del volume anche con l’aiuto di Maria Concetta Santamaria (FIDAPA) e di Irene Munafò (Arci Cohiba).
Stefania Ferraro, ricercatrice in sociologia dei fenomeni politici presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, ha raccolto alcune biografie di follia e miseria, per tracciare una topografia dell’inadeguato.
La psichiatria, fin dai tempi in cui è stata resa scienza, ha disciplinato il comportamento e la relativa definizione e catalogazione dei cosiddetti “folli”. Nell’Ottocento, la natura di tale scienza era chiaramente legata al disciplinamento delle classi popolari, povere e analfabete e come tali inclini al vizio di mente. Ma in realtà questa branca della medicina non ha risparmiato, negli anni, nessuno e nessuna. Gli scritti di Foucault o di Bourdieu (giusto per citarne alcuni) sono così terribilmente attuali, che l’esercizio linguistico non è cambiato neppure in certe perizie che riscrivono la vita degli individui. Forse sono cambiate alcune strutture (e i manicomi sono stati chiusi), ma l’approccio lombrosiano è rimasto ancora in voga e lo si rintraccia nell’intenzione di misurare la follia attraverso i tratti fisici.
Tra le diverse biografie possibili e raccontate nel volume, ne sono state scelte tre ritenute a ragione particolarmente significative: Maria F., Liliana ed Emma.
Maria F., definita semimbecille dal lombrosiano dottor Piazzi (le sue perizie sembrano più una esaltazione e ostentazione di deduzioni arbitrarie che delle vere e proprie registrazioni di dati amnestici), viene internata nel 1892. La donna ha ucciso il suocero. Il fatto che sia stata più e più volte molestata dallo stesso è un fatto non rilevante, non incidente sul reato. Va internata perché è pazza “per fatalità di legge biologica”: è povera, contadina, chiaramente analfabeta, evidentemente anello di una continuità psicopatologica senza fine. E ciò viene avvalorato anche dalla presunta amnesia che la porterebbe a respingere l’accusa di tentato infanticidio.
Poi c’è Liliana, che nulla ha a che fare con “certi” ambienti intellettivamente disidratati. Anzi, è ricca ed anche acculturata, vive in una famiglia agiata e nel catalogo delle narrazione dell’escluso non viene considerata outsider. Eppure, le viene praticato l’elettroshock nel 2010, come fosse una pratica di benessere. Viene considerata non per il nome e il cognome, unitamente alla sua storia, ma per le sue necessità “psichiatriche”.
Oppure ancora Emma, brillante ricercatrice a tempo. Che però non ha opportunità, non vede vie di uscita, non le vengono date le giuste risposte per l’impegno accademico e professionale e che quindi sceglie di imboccare la strada del silenzio passando dal suicidio.

Queste sono alcune delle suggestioni, o restituzioni, che il pubblico astante ha ricevuto. Il volume di Stefania Ferraro andrebbe letto e non solo perché è una ricerca documentaristica e sociologica di tutto rispetto, ma perché l’ordine dei discorsi sul malato psichiatrico possa cambiare e venga a lui riconosciuta innanzitutto la sua storia, senza miopie sociali o narrazioni eterodirette dal potere.