Era Dicembre, un paio di giorni dopo avrei compiuto ventitré anni. Nient’altro che una ragazza con una penna in mano e un foglio bianco da riempire, un’aspirante reporter alle prese con un’imprevedibile intervista. Mi ero documentata per bene, avevo raccolto con cura informazioni e voci critiche, note biografiche e stralci di precedenti dichiarazioni: non ho mai lasciato nulla al caso e anche questa volta non sarei stata da meno. D’altronde una chiacchierata con un Premio Nobel non è cosa di tutti i giorni e io lo sapevo bene.
Era una tiepida giornata di Dicembre e di lì a poco avrei intervistato Dario Fo.
“Le formalità non mi sono mai piaciute, dammi del tu. Io sono Dario.” Solo Dario dunque, niente titoli altisonanti o ossequi reverenziali, sarebbe bastato chiamarlo per nome.
Si inizia con una domanda, una delle tante preparate con accuratezza poco prima della telefonata. Ma la conversazione si sviluppa senza rispettare alcun ordine, così dimentico le mie ricerche e mi lascio guidare dalla curiosità. Con Dario non si può che andare a braccio, seguire l’istinto e abbandonarsi all’intensità dei suoi racconti.
Politica, storia, letteratura: parliamo di tutto, parliamo di vite stroncate nei caotici anni Ottanta, della propaganda e del teatro dei “liberi pensatori”. Un passato fatto di attivismo e idealità, vissuto senza riserve al fianco di una donna che non può né vuole dimenticare.
Ricordo gli istanti che hanno seguito la lunga telefonata, ricordo di aver dimenticato quel foglio bianco da riempire.
Quel giorno ho raccolto un frammento dell’eredità di Dario, fatto di brandelli di memoria e decise convinzioni. Oggi questo piccolo tassello acquista un valore in più, quello dell’irripetibilità.
Ciao Maestro.