La terrorista con la penna

“I racconti sono finiti. Le storie vissute. Il sapere tramontato. Adesso possiamo provare a salvarci. Diventare capaci di poesia, di archeologia d’anime, imparare a scavare nelle pieghe dell’umano patire, per riconoscere in ogni piccola banale storia la meraviglia che rimuova la banalità al dolore e alla fatica “ ( Barbara Balzerani “Lascia che il mare entri”. Ed. Derive-Approdi ,€. 10,20)

Un libriccino di un centinaio di pagine, il primo libro scritto “non più in cattività”. Un libro  con il quale attraverso tre figure femminili, tre donne a loro modo straordinarie, si analizza l’intero novecento con le sue contraddizioni e la promessa di un “progresso” salvifico della condizione umana. Eppure attraverso due guerre mondiali e nazionalismi e tanti “ismi , una promessa a cui porre pur sempre delle “resistenze” perché in suo nome si è consentita la ferocia e la barbarie.

E’ la stessa autrice, Barbara Balzerani, a distinguere la sua produzione letteraria tra i primi libri scritti in carcere, durante la condanna quale appartenete alle Brigate Rosse, e questo che sin dal titolo parla di una libertà riacquistata.

Durante la presentazione del libro voluta dal sindacato ORSA, a Messina, il suo intervento è stato registrato ed è per questo che la sentiamo confessare con un sorrisetto “birichino” che l’idea del titolo nacque proprio la sera che festeggiava la sua liberazione dal carcere.

“Il titolo nasce da una serata di bagordi, dove si festeggiava la mia liberazione, in un borgo marinaro dove le case erano dentro il mare, con le barche accanto e questa civiltà marinara era tanto dentro l’elemento naturale, dentro la vita, che aveva delle porte che non lasciavano “fuori” il mare ma erano fatte “apposta” per farlo entrare”.

Si è scritto molto su questo ultimo libro della Balzerani, tutti chi più o chi meno hanno voluto dire la loro e si nota un certa sufficienza nella critica, un retro-pensiero per cui “l’ Autrice non riesce a trasmettere il gene dell’universalità al testo, il corpo narrativo rimane invero circoscritto, non flessibile, iconico e refrattario a mediazioni interpretative col lettore”

E seppure si applaude al nuovo stile, alla nuova forma quasi poetica ed essenziale,  ancora non si smette di confondere la scrittrice con la Brigatista e si tenta in ogni modo di volerci vedere una forte rabbia sociale.

“C’è ancora una forte rabbia sociale, in questa visuale, ma almeno sembra incanalata su un binario meno aspro e ferroso di quello dei lavori precedenti”.

Non si tratta di questo ma di un percorso interiore di conferma della propria identità,  un voler precisare chi si è, quale storia l’ha portata ad essere quella che oggi è. Ed è lei stessa a spiegarlo nell’incontro avvenuto a Messina.

“ Il libro ha un respiro diverso. E’ un percorso di ricerca di quello che succede in questo Paese di cui ho vissuto una parte abbastanza centrale della sua storia (anni 70). La mia scrittura sostanzialmente ha un obiettivo principale che è quello di ridare una fisonomia a chi ha partecipato a quella stagione di lotte, perché troppo spesso quelle facce vengono deformate ad uso e consumo di chi ne vuol fare una propria lettura”.

“Io ho esposto la mia storia personale per dire come si diventa Brigatisti Rossi, un tipo di posizionamento politico del genere… ed in questo senso la mia bibliografia è sovrapponibile a quella di tutti i compagni che io ho conosciuto. Insomma è una forma di lascito , noi siamo stati questa roba qua”.

“Per cui queste volute campagne denigratorie lasciano il tempo che trovano e non hanno nessuna sostanza. Questa è la mia storia e per questo scrivo così. Non faccio saggi politici non faccio testi storici ecc. Io racconto storie perché credo che la Storia quella con la S maiuscola ha senso solo se è “Carne e Sangue”, l’altra è solo nozionismo. Nozionismo che non entra mai nella vita reale delle persone, di quelle che la storia la subiscono e solo in alcuni episodi particolari riescono ad esserne protagonisti”.

Insieme al progresso, che è il tema centrale dell’opera , un altro elemento essenziale è la resistenza, ma non la resistenza eroica dei partigiano o almeno non solo quella. La resistenza di una donna, la madre dell’autrice, che da contadina è costretta a passare in nome del progresso al grigiore delle fabbriche e alla catena di montaggio. Possiamo considerare le parole che Barbara rilascia a Messina a questo proposito come un saggio sull’alienazione del lavoro.

L’altra resistenza è quella della nonna mai avuta e che l’autrice ricava dai racconti della madre. Una bisnonna contadina che era tanto attaccata alla vita ed in simbiosi con essa da essere capace di stabilire pure la data della propria morte e questo pur di resistere al progresso rappresentato dal primo colpo di cannone della prima guerra mondiale.

Ed infine la resistenza di Barbara già nota ai più ma che in questo libro riscopre nelle promesse del progresso e di un mondo di eguali una delle ragioni delle lotta armata e forse anche il frutto “dello stesso equivoco”.  

Per evitare di correre nello stesso errore di molti commentatori e critici dell’opera della Balzerani, rischiare voli pindarici tra la psicologia e la storia, preferiamo riportare fedelmente le parole dell’incontro di Messina, al fine di lasciare il lettore libero da qualsiasi condizionamento e con il convincimento che leggere il libro sia sempre meglio che sentirne solo parlare.

(( Le protagoniste sono solo donne. Come tutte le ragazzine di questa terra io sono stata innamoratissima di mio padre ed ascoltavo sempre a bocca aperta tutto quello che lui mi raccontava, era bravissimo, e mi faceva credere anche all’inverosimile.

La differenza tra i due era sostanzialmente questa, mio padre mi faceva volare con la fantasia e quindi pensavo di essere la principessa (Quando vi era la festa della padrona del Paese, Santa Barbara appunto, io pensavo che la festa fosse per me). Questo era mio padre che mi faceva volare e mi faceva acquisire un senso smisurato di me. Chi mi ha dato il senso della realtà però è stata mia madre e per me era motivo di scontro. Lei non mi raccontava balle, non mi raccontava favole…eppure mi ha forgiato. 

Io non ho avuto nonni (che poi sono quelli che ti raccontano le storie e le cose) ed allora nel capito finale ho preso a prestito i racconti di mia madre, la vita di questa sua nonna che io non ho conosciuto. Ed è la parte totalmente contadina di questa vicenda.

Lei non ha mai lasciato la terra dove ha vissuto ed è stata il pilastro di una famiglia intera, era una donna straordinaria. Aveva una sapienza e una conoscenza rispetto a quello che produceva con le sue mani che non ha eguali rispetto a quello che abbiamo oggi, viveva in armonia totale con quello che è l’ambiente. In inverno andava in letargo (senza televisione ecc )doveva essere per forza una pensatrice, una filosofa.

Al primo colpo di cannone, nella prima guerra mondiale, quel nuovo modo di fare la guerra…la guerra moderna…quella che faceva vittime nella popolazione civile…lei ha detto: domani muoio. Io non voglio viverci in un mondo fatto così, alla lusinga del progresso, delle macchine, dell’industrializzazione, alla promessa di terra e ricchezza per chi partecipava allo sforzo bellico lei ha deciso di non partecipare ed è morta… ha detto domani muoio ed morta. Lei non era ammalata, ma ha soltanto voluto morire e questo presuppone un legame forte con gli equilibri della natura. Un gesto di libertà che è grosso come una casa.

All’interno di condizioni profondamente diverse, nel giro di pochi anni è cambiato tutto, chi ci ha vissuto dentro (la storia) ha potuto fare un tipo di “resistenza” profondamente diversa l’una dall’altra.

Apparentemente io ho partecipato alla fase più rivoluzionaria ed è vero, ma da certi punti di vista è stato più facile per me resistere che non per loro che vivevano delle condizioni sociali ed economiche molto differenti (mia madre aveva le terza elementare ed ha partecipato a questa fase d’industrializzazione come fosse una emancipazione,  veniva da un buco di paese ed il mio rammarico è sempre stato che non sono riuscita a portarla a Venezia —un tipo di emigrazione di quelle toste )

Queste persone, queste maestranze hanno scambiato una precarietà di vita, come poteva essere la condizione contadina, quella della campagna dove bastava una grandine…(anche se in campagna qualcosa da mangiare, anche durante la guerra la trovi sempre è in città che non trovi niente). Ed è questo passaggio dalla campagna alla fabbrica che Io l’avevo studiato nei testi sacri del Marxismo …l’alienazione del lavoro… quando lo vedi dentro una storia personale è molto più forte.

Cioè, l’entrata nel ciclo produttivo come quello di fabbrica ti toglie subito un sapere fondamentale che è quello di saperti costruire le condizioni di vita. Cioè tu stai dentro un sistema in cui non c’è possibilità d’altro, non puoi più fare nulla, non hai più la capacità della “costruzione di vita” e la seconda cosa è che diventi un numero.

Come tale nell’ambito delle relazioni di lavoro e di produzione, (oggi con parole nuove e contenuti vecchi si parla di produttività del lavoro e raggiungimento degli obiettivi), ti ritrovi uno contro l’altro E se ti succede qualcosa, un accidente, ti ammali o ti licenziano tu non hai più una possibilità perché non hai più una rete di sostegno, di solidarietà…chiamateli come volete… I motivi per cui erano nati i sindacati il secolo scorso, cioè come rete di sostegno dei lavoratori, poi sono diventate delle caste pure loro. 

Mia madre era la personalizzazione di questo dramma, da una parte i racconti della campagna bucolica e bellissima e dall’altra il grigiore della fabbrica e della catena di montaggio. Questo suo tentativo di coniugare questi due mondi… e quindi lo sviluppo ed il progresso delle macchine e lo “possiamo pure fare diventare un giardino”.

Che se il capitale non fosse stato così perfido forse qualche cosetta in più si riusciva pure a fare. Ma è anche ovvio che lei, mia madre, nel suo intimo era ben consapevole che il passaggio all’industrializzazione era irreversibile.

E se mia madre è stata in mezzo alle due condizioni perché le ha vissute tutte e due, quando sono arrivata io la condizione contadina non la conoscevo e sono nata con la ciminiera. Pensavo che il mio orizzonte fosse necessariamente quello. Anzi pensavo che era un passo in avanti… i miei compagni a scuola, che venivano dalle campagne vicine, erano emarginati all’ultimo banco perché non parlavano neanche in italiano, nessuno che gli rivolgeva la parola. Ecco quella per me era la campagna, una situazione di arretratezza rispetto a noi che eravamo più civili…

La contadina che non ha voluto niente a che fare con qualcosa di diverso, perché diceva è la terra che ti salva ( e tu pensi: che fai te la mangi ?). Quell’altra che forse ha fatto la resistenza più grossa e poi io che quando sono stata nell’età della ragione ho avuto questa opportunità incredibile-

In quegli anni in cui vi era un mondo intero in rivolta, si pensava di usare questo tipo di tecnologie, questo progresso per costruire una società di uguali… ma forse sulla base dello stesso equivoco.

Quello che sta al centro di un secolo intero è questa idea di progresso e in nome del quale siamo autorizzati a fare tutto e a sopportare di tutto. E’ proprio questo che ci serve? ))

Pietro Giunta.