LA TORTURA DI STATO

Art. 593-bis.– (Tortura) “Il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che infligge ad una persona, con qualsiasi atto, dolore o sofferenze, fisiche o mentali, al fine di ottenere segnatamente da essa o da una terza persona informazioni o confessioni… e` punito con la reclusione da quattro a dieci anni. La pena e` aumentata se ne deriva una lesione personale. E raddoppiata se ne deriva la morte…”
E’ questo l’articolo del Codice Penale che il nostro parlamento non ha voluto votare. Un paio di giorni fa il Senato invece di procedere alla votazione ha bocciato un emendamento e sostanzialmente ha rimandato alle commissioni il testo di legge. Un modo come un altro per mettere nel dimenticatoi la legge che avrebbe finalmente introdotto in Italia il delitto di Tortura. E’ dal 1989 che l’Italia deve ottemperare agli impegni presi con l’ONU quando nel firmare e ratificare la “Convenzione ONU contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli inumani o degradanti”, si era assunta l’obbligo di prevedere nel proprio Codice Penale il reato di “tortura”.
Il nostro è uno stato di polizia. O meglio è uno Stato in cui lo spirito del Codice Rocco di epoca fascista o il Testo di Pubblica sicurezza della prima metà del 1900 sono ancora sentiti e applicati. Non è raro pensare che con l’aggravarsi della crisi (con i sommovimenti e le proteste che porterà con sé) e la progressiva restrizione di quel poco di democrazia che ancora abbiamo (o ci illudiamo di avere) la repressione adotterà il suo volto più tragico e brutale. Quello che l’articolo voleva sanzionare è il modus operandi delle nostre forze di polizia. Quelle pratiche violente d’interrogare gli indagati, quelle violenze psichiche e fisiche che qualsiasi indiziato di reato si trova di fronte ogni volta che finisce nelle maglie di un procedimento penale.
Non c’è bisogno di andare sino ai fatti di Genova, anche se consiglio vivamente di andare a vedere il recente film fatto sulle vicende della Caserma Diaz, per farsi venire in mente i volti e le facce tumefatte di Aldovrandi, Cucchi e Bianzino, tre storie diverse nei fatti e nel tempo ma che hanno in comune la gratuita violenza, la tortura appunto, svoltasi nei seminterrati delle carceri e nei luoghi lontani da occhi indiscreti da parte delle nostre forze dell’ordine.

E come non pensare a quei lager che sono i nostri OPG (Ospedali Psichiatrici Giudiziari) dove quotidianamente si svolge una tortura legalizzata nei confronti degli “ospiti” di cui non si parla quasi mai.
Non è raro che questi fenomeni possano assumere anche un significato politico ben chiaro: una interpretazione minoritaria, ma che di giorno in giorno acquista consensi e forza, vorrebbe vedere una sorta di messaggio alla popolazione: state buoni e non succederà anche a voi. In altre parole, le pratiche che si vorrebbero mettere al bando sono parte integrante di qualsiasi modus operandi delle cosiddette ‘forze dell’ordine’, che non significa “ordine pubblico” ma solo un mantenimento dell’ordine costituito. Costituito dall’alto, da uno Stato di polizia e di potere fondato sulla violenza e sulla prevaricazione che non può certo essere definito democratico. Anzi le continue coperture e assoluzioni nei confronti di chi si rende responsabile di simili sconcezze fanno del nostro apparato di polizia e dei poteri forti che stanno alla base di questo sentire i germi del regime autoritario Per chiamare le cose con il loro nome fanno del nostro Stato uno Stato Fascista.
Nei paesi veramente democratici le forze di polizia sono attori chiave nella protezione dei diritti umani e hanno, tra le proprie responsabilità, quelle di ricevere denunce su abusi dei diritti umani, svolgere le indagini e garantire il corretto svolgimento delle manifestazioni, proteggendo chi vi partecipa da minacce e violenze. Perché questo ruolo sia riconosciuto nella sua importanza e svolto nella piena fiducia di tutti, sono essenziali il rispetto dei diritti umani, la prevenzione degli abusi, il riconoscimento delle responsabilità e una complessiva trasparenza che in Italia manca e che la decisione del centrodestra non fa altro che rimarcare.
I procedimenti in corso per la morte di Aldo Bianzino, Giuseppe Uva e Stefano Cucchi mentre si trovavano in stato di custodia; le accuse di lesioni, aggressione, sequestro di persona e calunnia agli agenti della polizia municipale che tennero in stato di fermo Emmanuel Bonsu; sono fatti che dovrebbero interrogare profondamente le coscienze e le istituzioni e che confermano un vuoto di misure legislative e istituzionali per la prevenzione degli abusi.
Fuori dagli schemi e dalla retorica di maniera mi sembra che la vicenda sia il segno di una frattura, di una lotto culturale che sembrava sparita ma che è ritornata pressante e pregnante nel sentire quotidiano. Infatti, se si leggono le motivazioni dei singoli politici si nota uno scontro molto forte tra culture di destra e di sinistra – non dei partiti, ma delle culture -, che è venuto fuori in maniera evidente in commissione, sulla necessità di tutelare dai comportamenti violenti le persone sottoposte a limitazione della libertà personale. Ci sono stati una serie di interventi che contestavano la necessità e l’impostazione del delitto di tortura, per esempio il senatore Giovanardi («si rischierebbe di sanzionare anche alcuni interrogatori pressanti svolti dalle forze dell’ordine»), o Benedetti Valentini («Perplessità nella parte in cui si configura quale reato teleologicamente qualificato») o dell’ex prefetto Serra («l’ipotesi di sanzionare colui che cagiona sofferenze psichiche rischierebbe di venire in rilievo anche nel caso di alcuni pressanti interrogatori delle forze dell’ordine»).
Io consiglierei a questi politici e alle forze dell’ordine di rivedersi i Film Americani, d’interrogatori pressanti se ne sono visti tanti e molti anche avvincenti ma in nessuno di essi ho mai percepito la violenza gratuita, materiale o psichica nei confronti dell’interrogato.
Pietro Giunta