È una
giornata calda. Non settembrina, ancora estiva.
Turisti
stranieri in spiaggia. Il borgo è silenzioso. È venerdì, noi indigeni siamo al
lavoro, chi resta a casa è in attesa del ritorno da scuola dei figli o nipoti.
Il paese ha il respiro tranquillo della quotidianità della provincia.
Abito e vivo
un luogo bellissimo. Un antico borgo marinaro, un minuscolo centro storico
medioevale attorno al quale si è sviluppato, nei secoli, il paese attuale. Il
periodo più fiorente fu il 19esimo secolo, quando gli armatori locali
costruirono palazzi con facciate decorate e una elegante via lastricata in
pietra.
Un paese
rimasto uguale nel tempo. “Ideale per le famiglie e per crescere bambini
liberi e felici”. In parte è vero. I miei figli sono cresciuti giocando in
spiaggia, dopo la scuola, anche durante l’inverno. Non c’è “malavita”
, se si esclude qualche furto nelle case. Tutta gente “per bene”
quindi, seguendo uno stereotipo tanto in voga oggi.
Eppure, anche qua, in un minuscolo paradiso, (per me talvolta claustrofobico e soffocante), in un’isola apparentemente lontana dalle brutture e dai dolori del mondo, avverto nei miei concittadini quel senso di pericolo imminente, di invasione in atto, non diverso dal pericoloso e contagioso sentire delle grandi città. Il ladro è per forza straniero. Le donne delle pulizie sono straniere e abbassano le tariffe rubando il lavoro ai noi femmine italiche .
Le badanti sono straniere e ingannano, per derubarli, i nostri anziani (peraltro abbandonati dagli stessi famigliari cosi preoccupati per il loro benessere, ovvero patrimonio). I muratori sono extracomunitari sotto pagati. I bambini stranieri nelle classi rallentano i nostri piccoli geni poiché, non possedendo pari competenze linguistiche obbligano i nostri italioti figli ad adeguarsi e subire l’altrui presunta lentezza.
Fino a quale
punto profondo della nostra coscienza il tarlo dell’intolleranza ha scavato e
si è annidato ? Fino a dove è riuscito ad erodere i nostri ricordi di emigranti
poveri ed emarginati? Perché, occorre ricordare e ribadire con forza, i nostri
nonni, talvolta padri, erano migranti economici.
Non
fuggivano dalla guerra, ma dalla fame, dalla povertà, dall’ignoranza a cui
erano condannati per appartenenza sociale e dalla quale speravano di affrancare
i loro figli. Se c’è chi soffia per diffondere la nebbia dell’oblio e sulla
rabbia di chi è penultimo nella scala sociale affinché identifichi l’ultimo e
si illuda così di aver conquistato una migliore posizione, è necessario, vitale
per il vivere civile, per educare le nuove generazioni alla tolleranza,
all’accoglienza e a comprendere ciò che accade oggi nel mondo e le ragioni per
cui accade, sollecitare la memoria, evocare ricordi non lontani nel tempo.
Ci sono
ancora in ognuno di noi, da qualche parte. È un modo diretto, utilizza un
linguaggio semplice ma immediato, una fotografia di ciò che eravamo e di chi
oggi arriva, disperato ed affamato, con lo stesso nostro diritto di avere un
futuro e una vita degna di questo nome. Esercitiamo la memoria. Evochiamo
ricordi di miseria e valigie di cartone. Parole e fotografie come bisturi per
liberare l’infezione dentro di noi e guarire dal male.
Ketty
Salaris