“Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane.
Si costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci.
Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro. I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali.”
I protagonisti dello stralcio di cui sopra non sono romeni, né tantomeno polacchi, marocchini, tunisini, indiani o senegalesi. Il testo in oggetto fa parte di una relazione dell’Ispettorato per l’Immigrazione del Congresso americano datata ottobre 1912. Gli immigrati in questione sono italiani.
1912-2012: un secolo dopo.
Il razzismo è come un boomerang o, meglio, è come un virus contagioso, un portato di veleni antichi, che se non lo curi a dovere rischi di portartelo addosso per sempre, pronto a manifestarsi alla prima occasione. Accade così che molto spesso la vittima diventa il carnefice. Gli israeliani in Palestina fanno scuola.
Da qualche decennio a questa parte l’Europa è divenuta la terra promessa di uomini e donne in fuga da condizioni di estrema povertà, oppure da regioni caratterizzate da forte instabilità politica o, ancora, da violenti conflitti interetnici. Nell’immaginario collettivo di costoro il Vecchio Continente assurge a luogo privilegiato da cui poter ripartire per ricostruirsi una vita dignitosa ed offrire una garanzia di sopravvivenza alle famiglie rimaste nei paesi d’origine. L’esodo dal Maghreb, dall’Africa subsahariana, dall’Europa dell’est e dall’Asia verso il cuore dell’Occidente produttivo ha interessato in maniera sempre più evidente anche le coste italiane, confermando una tendenza – già manifestatasi a partire dagli anni ’80 – che ha definitivamente trasformato l’Italia da paese di migranti in territorio ad alto tasso d’immigrazione.
Ed ecco il boomerang: gradualmente, ed in maniera sempre crescente, i nostri governi hanno inasprito la politica di immigrazione introducendo pene severissime per gli immigrati irregolari presenti sul suolo nazionale. A partire dalla legge Martelli, passando per la Turco–Napolitano, fino a giungere alla Bossi-Fini e all’istituzione dei C.I.E. (centri di identificazione ed espulsione) la dura politica anti-immigrazione del Bel Paese non ha fatto altro che generare quella forza lavoro nera e sotto-retribuita che, paradosso dei paradossi, continua a rappresentare una fetta cospicua del Pil nazionale: tra il 25 ed il 30%, un contributo al nostro prodotto interno lordo che supera per 4 volte quello degli altri paesi europei. Nonostante ciò l’Italia possiede la legislazione più repressiva ed esclusiva dell’intero continente, da cui emerge con tutta evidenza un vincolo strettissimo tra lavoro e soggiorno: un vincolo razzista che continua a generare i “servi” dell’economia italiana.
Parallelamente i nostri media nazionali hanno contribuito a diffondere un clima generale di paura e d’incertezza sfociato spesso in atteggiamenti xenofobi e razzisti che, al di là degli innumerevoli episodi d’intolleranza di cui parecchi connazionali si sono resi responsabili, emergono con tutta evidenza nei luoghi comuni dell’italiano medio, secondo cui gli immigrati – soprattutto gli irregolari – rubano nei nostri appartamenti, stuprano le nostre donne, si dedicano ad attività criminali come lo spaccio e la prostituzione e, nel migliore dei casi, ci rubano il lavoro. A sostegno della tesi sul lavaggio del cervello operato dai media valga qui il dato emerso da una ricerca dell’Osservatorio sulla Televisione di Pavia che per sei mesi ha scansionato i tg di tutte le reti nazionali: su 2000 servizi 276 avevano a che fare con l’immigrazione, di questi ben 250 parlavano dell’immigrazione in relazione ad episodi di criminalità.
Ma è davvero così? Gli immigrati irregolari sono un pericolo per la nostra sicurezza? Inoltre, è vero che offrendo manodopera a costi bassissimi non fanno altro che sottrarci il lavoro? E ancora, se li buttassimo fuori tutti, avremmo risolto i nostri problemi?
Se cercassimo risposte a questi interrogativi attraverso i comuni mezzi d’informazione rischieremmo di fare un torto alla verità, o comunque di non raccontarcela tutta. Per fortuna in Italia esiste una rete antirazzista fatta di associazioni e movimenti più o meno in connessione tra loro. Una rete di persone che esprime solidarietà, che informa, che denuncia, che tenta di sensibilizzare l’opinione pubblica ad osservare la faccenda immigrazione sotto un’altra luce.
Tra queste persone c’è Marco Rovelli, scrittore e musicista, ex leader del gruppo Les Anarchistes ed oggi solista. Nel 2006 Rovelli pubblica “Lager italiani”, reportage narrativo interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi. Nel 2008 è la volta di “Lavorare uccide”, dedicato ad un’analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 pubblica “Servi”: un altro reportage narrativo sulla realtà dei clandestini al lavoro. Un lungo viaggio attraverso l’universo dell’economia sommersa per documentare l’agghiacciante dramma dei “segreti”, dei “nascosti” – questi i significati letterali di “clandestino” – costretti a vivere una perenne condizione di violenze e soprusi perpetrati da caporali e datori di lavoro italiani senza scrupoli che sfruttano la forza lavoro di questo esercito di “senza documenti” facendo leva sulla loro ricattabilità e costringendoli a prestare manodopera in nero, a ricevere misere paghe (spesso meno di due euro l’ora), a vivere in condizioni igienico-sanitarie da quarto mondo, a non godere di alcuna assistenza sanitaria, né di garanzie sindacali. L’alternativa per questa massa d’invisibili consiste in pesanti multe, in una custodia preventiva in un C.I.E. e nel rimpatrio coatto nel paese d’origine da cui si era scappati per sfuggire ad un destino di miseria e di oppressione. Tra le due opzioni la schiavitù rimane quella “preferibile”.
Dalle campagne siciliane, passando per quelle di Rosarno e del foggiano, fino ai grandi cantieri edili e agli ortomercati della Lombardia, il viaggio-documentario di Marco Rovelli si fa testimonianza di un’Italia razzista e violenta, ribaltando il mito degli “italiani brava gente” ed offrendo uno spaccato drammatico di una nazione in cui le imprese, soprattutto quelle medio-piccole, si servono degli immigrati irregolari per continuare ad oliare un’economia che può mantenere la sua concorrenzialità solo servendosi del lavoro a basso costo, rimarcando la zona d’ombra di un capitalismo ancora dedito a forme arcaiche di sfruttamento, grazie anche al concorso della criminalità organizzata. Ne vien fuori un testo corale che raccoglie, affiancandole ai dati, le atroci testimonianze di Marcus, Mircea, Caterina, Hassan, Vlad, Monsef, Monir e di tante altre esistenze dai nomi fittizi che giornalmente vivono alternando la paura di essere pestate o uccise a quella della reclusione e dell’espulsione. In questo scenario non c’è colore di pelle o “razza” che tengano. Lo esprime bene, all’inizio del libro, Marcella, la donna ivoriana che gestisce una trattoria popolare per i lavoratori stagionali nel foggiano: “Rumeni e polacchi sembrano bianchi, ma è Dio che ha sbagliato il colore della pelle.” I clandestini sono tutti uguali, tutti costretti a vivere nell’ombra per non rischiare di essere scoperti e denunciati. Allo stesso tempo, però, sono talmente importanti che se li rimpatriassimo tutti in una volta le conseguenze per l’economia italiana sarebbero devastanti. “Se non ci fossero i clandestini – scrive Rovelli – le arance rimarrebbero sugli alberi e gli italiani non avrebbero pomodori italiani nel piatto”. Insomma gli immigrati ci servono. Ancor meglio se irregolari. E in questa contraddizione, probabilmente, si annida un tipico atteggiamento schizofrenico che fa del caso Rosarno l’esempio più eclatante di certa ipocrisia italiana. Eccone un assaggio in “Servi”:
“Lo sport più praticato dai giovani di Rosarno è la caccia al nero. Dove “nero” non designa un subsahariano, ma indica indistintamente – senza discriminazione – un africano: di pelle scura o chiara è lo stesso. Il lunedì mattina, sugli autobus che portano a scuola, i ragazzi si fanno i reportage dei rispettivi pestaggi, sono motivi di vanto, di onore, a misurare il valore, tante croci sul petto. Ci sono delle tecniche, per linciare un nero. Anzitutto, evidentemente, essere in gruppo. Poi appostarsi nei luoghi strategici, dove sei obbligato a passare se vuoi andare da un punto all’altro del paese. Luoghi come via Carrara, via Roma, via Convento […]. Appena due mattine fa, dice Antonino (ha i capelli alle spalle, un maglione colorato, un giubbotto di pelle scamosciato – “pure io quando cammino, mi sento dire drogato, frocio, come sei combinato…”), un ragazzino maghrebino correva, terrorizzato, lo rincorrevano in tre, con delle verghe in mano, l’ho fatto salire in macchina e l’ho portato via. E lo stesso ha fatto qualche tempo prima Giuseppe con un ragazzo algerino […]. Sono clandestini, senza di loro le arance resterebbero sugli alberi. Di loro hanno bisogno i padri nei campi, ma di loro hanno bisogno anche i figli per prenderli a sassate, che nelle loro figure espiatorie trovano il bersaglio ideale della loro cultura modellata dalla mafiosità […], quella mafiosità che fa cultura, che sempre più spesso fa rispondere, alla domanda Cosa vuoi fare da grande? – Il boss.
Marco Rovelli ha appena incontrato i ragazzi del liceo in occasione del “Progetto Lettura” organizzato dall’Istituto. Il tratto di strada che conduce dall’Auditorium alla sede del Liceo è breve, sufficiente comunque per scambiarci due chiacchiere. Mi interessa sapere da dove nasce questa sua tensione a raccontare storie del genere. «C’è una propensione naturale – mi spiega – non tanto ad occuparmi quanto ad essere occupato dal margine, da ciò che non conosco, da ciò che è invisibile, da quell’invisibile che è l’essenziale nella vita e che proprio perché non lo guardiamo in realtà ci riguarda molto di più di quello che è visibile. Questa è una mia propensione naturale da quando ho l’età, non tanto della ragione ma della (s)ragione. Ho sempre avuto questa tensione ad attraversare e ad essere attraversato da territori sconosciuti alla mia esperienza, e a sentire lo spazio comune come uno spazio mio personale». Poi mi racconta di come è riuscito ad addentrarsi nella realtà dei clandestini e dei “ganci” che lo hanno aiutato a farsi strada in questo viaggio. «C’è una rete antirazzista in Italia, fatta di tante piccole realtà più o meno in connessione tra loro. Sono realtà di associazioni, di movimenti, in cui incontri persone che se ne occupano per etica: incontri avvocati, a volte sindacalisti, pochi in realtà, però ci sono anche loro. In due località nel Sud sono stato ospite di Medici Senza Frontiere, sia a Siracusa che a Rosarno». La politica no, non se ne cura. D’altra parte la destra incentiva e poi cavalca l’onda xenofoba e razzista, la sinistra dal canto suo non pare abbia fatto delle condizioni lavorative degli immigrati, regolari e non, un suo cavallo di battaglia. Gli chiedo perché e mi risponde che «innanzitutto la sinistra in questo paese non c’è. La prima legge che ha istituito i CTP è la Turco- Napolitano che ha aperto la strada a quella che in maniera più dura sarebbe diventata la Bossi-Fini. Il binario fondamentale che si è deciso di seguire è quello costruito sul nesso strettissimo e rigidissimo tra soggiorno e lavoro, binario costruito dal centrosinistra. Poi, per anni e anni, la sinistra non è riuscita a porre la questione in termini diversi da quelli del “multiculturalismo”, tralasciando di affrontare la questione in termini di diritti dei lavoratori: se non affronti la questione dal punto di vista secondo cui i diritti degli immigrati sono i diritti dei lavoratori e se al contrario si continua a porre la questione solo dal punto di vista del multiculturalismo, dicendo quanto è bello il mondo stringiamoci la mano, è chiaro che poi ai primi disagi ci si accorge che questo mondo di mille colori in cui ci vogliamo tutti bene non esiste. La questione forse è da porre in termini diversi ma la sinistra finora non lo ha fatto: questo perché la sinistra non è più tale, perché una sinistra che si rispetti pone le questioni cominciando da un’analisi delle strutture economiche e dal ruolo sociale dei lavoratori». Allo sguardo miope della politica si somma l’indifferenza della società italiana, indifferenza che tuttavia fa presto a trasformarsi in vero e proprio odio razzista perché «finché i clandestini stanno sparsi, isolati e invisibili nessuno se ne cura e si preferisce non vederli. In questo modo ci si salva anche la coscienza. Ma quando le questioni si addensano e si concentrano come accaduto a Rosarno e Cassibile, allora a quel punto si scatena l’odio sociale». E qui la schizofrenia tipica degli atteggiamenti razzisti esprime il meglio di sé perché «se ci pensi bene – mi spiega Rovelli – il razzismo altro non è che un dispositivo culturale finalizzato alla produzione di un segmento sociale di tipo servile, sintetizzabile con l’espressione comune “stai al tuo posto!”. E il tuo posto è il posto del servo. Ecco la costruzione culturale dell’”altro inassimilabile”, l’oggetto verso il quale esercitare il proprio rifiuto».
Prima di salutare quest’uomo dal volto di ragazzo, paroliere in grado di frantumare il silenzio di quei “senza nome” servi di un paese che ama definirsi civile, gli chiedo se pensa che prima o poi qualcosa possa cambiare: «Certo – mi risponde – la storia dell’uomo è lì a dimostrarcelo. Le cose si possono sempre cambiare, anche nei momenti più bui in cui sembra che abbiamo toccato il fondo. Attraverso una serie di micro-pratiche e di micro-resistenze, già in atto ma che spesso sono sconosciute ai più, è possibile operare il cambiamento e sovvertire quell’egemone cultura neoliberista e razzista che oggi abbiamo in Italia. Il nemico vince quando ti ha condotto a perdere ogni speranza e questo non è ancora successo». Con un messaggio di speranza si chiude anche “Servi”, un atto di fede affidato ad una frase in senegalese che recita: “Sunu rew modi dunya”. “Nostra patria è il mondo intero”. Intanto sono ripresi gli sbarchi lungo le coste meridionali della Sicilia.