Migranti, eroine e dimenticate

Ci sono storie che a volte cercano un autore e un momento giusto per uscire fuori dalla polvere con cui la Storia, quella “grande”, ha cercato di cancellarne i confini. Come in questa, sbucata fuori dal lontano 1911. Una storia che parla italiano.

Chissà quali pensieri hanno avuto le nostre piccole eroine, vestite di poveri stracci, quando si sono imbarcate con un biglietto di terza classe dirette verso “Lamerica”. Un viaggio transoceanico in cerca di una vita nuova, lontano da fame e miseria, lontano dagli stenti. Ce le possiamo immaginare mentre si ammassano nelle locande, a ridosso dei porti di partenza, in attesa di compiere un viaggio pieno di incognite. Luoghi sudici, malfamati, lontani da qualunque standard igienico e, soprattutto, lontano da qualunque umanità: quei luoghi, la Storia, quella “grande”, ne ha riprodotto  immediatamente  le fattezze, riproponendoli con davvero poche differenze, nei moderni centri di accoglienza, quei recinti senza umanità entro cui imprigioniamo, ormai da anni, i “clandestini” che approdano sulle nostre coste. 

Partivano da Palermo, da Messina, da Napoli e da Genova i nostri migranti. 38 donne fra loro non fecero mai più ritorno.  Lasciarono i paesi di provenienza spezzando per sempre legami familiari, lingua e memoria. Addosso, solo il vestito della speranza.  Loro, le nostre eroine, stavano per diventare capo famiglia, condizione che le avrebbe riscattate da un ruolo di subalternità maschile. Così, con qualche anno di differenza l’una dall’altra,  sono salite a bordo dei piroscafi, mettendo, fra loro e il resto di tutto il loro mondo, l’oceano di mezzo. Un viaggio infernale, che poteva durare anche quindici giorni in balia di un oceano spesso assassino, prima di sbarcare a Ellis Island. Lì avrebbero subito tutte le umiliazioni, corporali e psicologiche, che chi detiene il potere economico riserva all’esercito di invisibili che sono il fondamento di tutte le società capitalistiche, oggi come allora: visite mediche, quarantena, più spesso il rimpatrio, vanificando, così,  i tanti sforzi per una vita più degna.

L’hanno appena intravista  le nostre “piccole donne” una vita di emancipazione, di affrancamento dalla sudditanza economica maschile: un lavoro in fabbrica, da camiciaie. Per molte fu il rifiorire a una vita nuova, fatta di progetti anche d’amore. Finchè arrivò quel maledetto pomeriggio, quello in cui scoppiò il rogo che si portò via la loro vita, vanificando le speranze e i sogni di 38 donne italiane, 38 lavoratrici, 38 migranti. Almeno fino a quando Ester Rizzo, autrice di “Camicette Bianche” edito da Navarra Editore, non le ha raccolte una per una dai fogli ingialliti dei registri ufficiali. Un viaggio temporale che è arrivato fino al secolo scorso e anche oltre: date e registri di nascita da comparare e verificare incrociando i dati; 16 i comuni italiani coinvolti in questa ricerca. Registri e documenti di sbarco a Ellis Island, il ghetto in cui venivano rinchiusi i migranti non appena messo piede in terra americana, da confrontare coi luoghi di partenza e con quelli di nascita. Un lavoro minuzioso e preciso e che è stato un atto d’amore per queste donne, per queste giovani determinate a riprendersi il futuro che era loro. Speranze andate in una attimo. Sfruttamento del lavoro femminile, caporalato, norme inesistenti di sicurezza sono stati gli ingredienti esplosivi di una storia che parla ancora il linguaggio della contemporaneità. Nessun tribunale, nessuna giustizia ha risarcito veramente quelle morti. Pure la Storia ne ha, in fondo, resa opaca la memoria, rendendo indistinto il loro sacrificio: la celebrazione della Giornata Internazionale della Donna, ogni 8 marzo, pur ricordando l’evento, non lo ha mai fatto in modo personale. Una giornata che ha, col tempo, perso il suo significato originario, sacrificandolo sull’altare del business commerciale: vendite di mimose e locali chiassosi con spettacoli di dubbio gusto è tutto quello che è sopravvissuto nell’immaginario collettivo del nostro paese. Un’ulteriore umiliazione per quelle 38 vite. Una lavaggio di memoria colpevole, a cui il libro cerca di porre rimedio, restituendo una qualche forma di giustizia.

Il gruppo Toponomastica Femminile, che da tempo compie un lavoro egregio in questa direzione, ha anche lanciato una petizione pubblica, rivolta ai sindaci delle città di origine delle 38 italiane affinchè dedichino loro un luogo pubblico che ne onori la memoria in modo personale e nominale, cioè come meritano.

La storia di queste donne coraggiose e il libro che ne racconta le vicende, ha già preso il largo verso un giro di presentazioni in tutta Italia.

Si può firmare la petizione cliccando il link dell’appello: https://change.org/it/petizioni/franco-curto-ridiamo-dignit%C3%A0-alle-donne-vittime-dell-incendio-della-triangle-waist-2

E’ anche possibile iscriversi al gruppo fb seguendo il link https://facebook.com/groups/539476739506676/?fref=ts