Siamo diversi, non c’è niente da fare. Sì, Pino Maniaci è ammirevole, è un modello altissimo. Ma è talmente alto da poterlo solo osservare, raggiungere come Messner l’Himalaya no.
Non ne sono sicuro, ma non credo che siano in tanti a somigliarci. Io, ad esempio, nell’ascoltarlo mentre racconta di come guarda in faccia quelli che chiama “pezzi di merda”, i mafiosi conclamati, respirandone il fiato a un palmo dal loro naso, penso a me. Penso alla mia capacità di arrivare fin là. Ascolto le minacce che gli sono arrivate, le botte che ha preso, i danni che continua a contare, e penso a me. Penso alla mia capacità di arrivare fin là.
Faccio il giornalista, io. Come lui. Ho avuto qualche problema per farmi riconoscere dall’ordine, io, e mi hanno pure processato. E pure lui. Solo che lui lo volevano eliminare dal panorama delle penne, lui che dell’ordine non gliene può fregare di meno, io ero un fastidio da niente. Io che all’ordine ci tenevo, dalla mia scrivania della capitale. Lui hanno tentato di strangolarlo con la sua stessa cravatta, io al massimo ho ricevuto la notizia che mi avrebbero fatto volare dall’ottavo piano di un palazzo in centro. E non erano neanche credibili, figurarsi. Ci tornerò. Lui s’è salvato perché suo padre – dice – gli ha insegnato a fare il doppio nodo. Io sorrido. Sorrido e mi chiedo come faccia. Non è tanto la paura. Cerco di immaginarmi in situazioni simili, e dico che potrei affrontarle. Poi, però, mi ritrovo con una lacrima che sta per scappare dall’occhio sinistro, e lì mi arrendo. Non ricordo di essermi commosso ad un incontro, ad una conferenza, un dibattito. Neanche a sentire racconti della memoria da Cefalonia, o vivi ritratti della Shoa. Ma ad ascoltare Pino che cambia improvvisamente registro, con la lingua che gli inciampa nel nominare la figlia, perdo ogni appoggio. Un attimo prima aveva tirato fuori l’ennesimo aneddoto: fermato in pieno centro con l’auto, costretto a rimanere a bordo, picchiato a sangue. Una gamba spezzata sotto la morsa di uno sportello chiuso improvvisamente per non farlo scendere, tre costole rotte, i denti saltati, un occhio quasi fuori dall’orbita. Ma ucciso no, aveva il doppio nodo e loro non avevano armi. S’era servito della cravatta, il diciassettenne figlio del boss, enorme rispetto a quest’omino che a me ricorda tanto Benigni, ma anche Chaplin, Pirandello e Camilleri. E anche Joe Lansdale, e di solito nessuno mi ricorda Joe Lansdale. Pino racconta questo e altri episodi del suo incredibile quotidiano riempiendoli di ironia, di sarcasmo. E di parolacce, lui che è stato educato dai gesuiti. Quando tira fuori la sorpresa del doppio nodo che l’ha salvato regala alla platea un vigoroso gesto dell’ombrello. E per chi non ha inteso bene lo fa di nuovo. Solo che quando gli tornano in mente le ore successive a quell’agguato quasi mortale, quando ripensa all’incontro con la figlia, l’ironia crolla improvvisamente come fosse sabbia inghiottita dal mare. La voce gli si spezza nel riportare le parole della figlia: «Papà adesso ci penso io, tu ti devi riposare». Pino si porta l’indice e il pollice agli occhi, preme le pupille. Un applauso della sala rompe un attimo di silenzio gigantesco. Parla di Letizia, Pino, orgoglioso e arrabbiato. Arrabbiato per paura che le succeda qualcosa. La stessa paura che lo riporta davanti al video nel giro di poche ore, per evitare che ad esporsi dopo l’agguato sia la figlia, e per mostrare a quel diciassette, alla sua famiglia e allo stuolo di tirapiedi che lui è sempre là. Come quando, con le gomme dell’auto appena tagliate, si è messo a girare per il paese a bordo della stessa auto. Per mostrare che è sempre là. Non ha paura dei mafiosi, no. Ha paura per la figlia. E io scopro che, ascoltandolo, una lacrima vuole saltare fuori, senza preavviso. Così, nel tirarla indietro, mi chiedo se potrò arrivare a somigliare a lui. Mi rispondo che è difficile. È un dialogo surreale quello con me stesso che nel frattempo dal palchetto assiste all’intervento di Pino. Di solito in questi dialoghi giungo ad una conclusione abbastanza perentoria, e in qualche modo anche soddisfacente (cerco di trattarmi bene), ma stavolta non lo so. Fino a quando bisogna combattere l’omertà coi racconti, l’illegalità con le immagini del malaffare, allora sì. Ma è di fronte la capacità di farsi così forte da diventare un esempio di vita che mi fermo. Pino ha la forza di osservare la figlia fare il suo stesso mestiere, nell’identico modo in cui lo fa lui. E alla stessa maniera sua moglie, che alla vista di una macabra lettera anonima che la minacciava gli ha detto di andare vanti; o del figlio che ha sbattuto la telecamera in faccia a Riina jr al solenne matrimonio della sorella; o della figlia piccola, che a diciotto anni gli ha detto a muso duro che avrebbe lavorato alla tv con loro. Pino è il patriarca di una famiglia sopra le righe, che difficilmente trova eguali. Credo sia unica. E unico è lui.
«Siamo tutti Pino Maniaci» diceva a voce decisa Dino Sturiale, venuto da Messina ad Acireale per infilarsi in quel fiume in piena di parole che è il direttore di Telejato, infilarsi e raccontare cosa significa essere amici di Pino. Ha spiegato, prima che a Pino venisse consegnato da “Liberacittadinanza” il premio alla coerenza civile (nel 2010 ritirato da Umberto Ambrosoli, in nome del padre Giorgio, e nel 2011 da Giacomo Panizza, fondatore di “ProgettoSud”), che c’è una sottoscrizione, che è possibile firmare sul sito articolo21.com o ritaatria.it alla pagina “Siamo tutti Telejato”. Firmare, e magari mandare del denaro appena sarà pronta una nuova iniziativa in cantiere, in modo da evitare che lo scellerato disegno del Governo che va sotto il nome “switch off” si concretizzi, cancellando realtà di frontiera come Telejato. Ecco, siamo tutti Pino, siamo tutti la sua creatura. Tutti insieme, come grida lui davanti alla platee che intrattiene con una vitalità che pare infinita. “Dobbiamo svegliarci, siamo cinquemilioni, cinquemilioni di siciliani contro cinquemila mafiosi schedati!”. Insieme possiamo, è vero, è certo. E questo mi basta. Arrivare all’altezza che quest’uomo, piccolo e magro come la fame, mostra di avere, appare impensabile. Ci ho riflettuto nel tempo di una lacrima cacciata indietro, e ho concluso che è difficile, sì, ma è un’altezza che esiste. L’ho vista. Si alza sopra la mafia, è visibile da qualsiasi parte. Salirci in tanti sì, si può. Eccomi lassù, dopo l’incontro di ieri.
Adesso io sono lui, come tutti gli altri.
Sebastiano Ambra