Yvan ha 16 anni. E’ arrivato dal Camerun nel 2014, salvato mentre era alla deriva su un gommone insieme ad altre 115 persone. Da solo, con i suoi 14 anni. In fuga da una terra in cui la guerra civile non permette ai bambini di essere bambini. “Io non avevo mai avuto il pensiero di venire qua in Italia – ci racconta – ma lì in Camerun, esci la mattina per andare a lavorare e ti arrestano. Non sai se potrai tornare a casa. Sei piccolo ma non puoi andare a scuola, non puoi fare le cose che fanno i bambini. Devi andare a lavorare, e sei fortunato se torni a casa”. Un’infanzia trascorsa in mezzo a soldati veri, ben diversi dai soldatini di gomma con cui giocare con il fratello maggiore. Con quel fratello più grande, Yvan si è messo in marcia a 12 anni. Ha raggiunto la Libia dopo due anni di viaggio a piedi e in macchina. Due anni di deserto, di sete, di fame e di violenza. Quello che gli adolescenti vedono al cinema, sorseggiando una bibita e mangiando popcorn, Yvan lo ha vissuto. 12 anni, un’infanzia non vissuta, un’adolescenza segnata per sempre. Un viaggio di due anni al fianco di un fratello maggiore che, una volta giunti in Libia, ha pagato per lui perché potesse andare via. Affinché almeno lui, potesse continuare a sperare. Ora Yvan aspetta da 7 mesi notizie da un fratello che non sente più, e che non vede da 2 anni. Dal suo arrivo in Italia nel 2014, il piccolo grande Yvan è riuscito a mettersi in contatto con il fratello maggiore solo una volta, per scoprire che era stato arrestato e ferito alla gamba con un colpo di pistola. “Perché in Libia funziona così, ti arrestano perché sei nero” ci spiega con una freddezza tale da far sembrare tutto così lontano dalla realtà. Ma la realtà è che Yvan è qui, in Italia, senza sapere dove sia il fratello che lo ha accompagnato per due anni in un viaggio disperato. Il fratello che gli ha permesso di partire per vivere una vita diversa, o per avere semplicemente la possibilità di viverla. “In Libia arrestano i neri e aspettano che qualcuno paghi per farli uscire – continua – Appena sono arrivato in Italia ci siamo sentiti, ma dopo per un anno e mezzo non ho avuto sue notizie.” Un anno e mezzo senza sapere cosa gli fosse capitato, per poi scoprire che era in carcere. “La mia famiglia italiana mi ha aiutato a mandare i soldi per farlo uscire di galera e andare via dalla Libia. Ma la Libia è un territorio in cui è facile entrare. E’ uscire che è un problema. L’unica soluzione per uscire è l’acqua, è venire qui. L’ultima cosa che so è che era a Tripoli per prendere la barca. E’ da 7 mesi che non ho più contatti con lui”. Ad oggi, Yvan non sa dove sia suo fratello. Sa che doveva prendere una barca per venire qui, per raggiungerlo. Non sa altro. Dalla corazza di uomo forte sembra voler uscire prepotentemente il bambino che ancora aspetta di sentire la voce del suo fratellone. Solo in questi momenti la voce di Yvan si fa meno piena, le difese sembrano venir meno.
Quando ci racconta del viaggio, sembra parlare di un evento vissuto da spettatore. La sua forza sconvolge. La sua voce narra di un’esperienza superata, che riesce a raccontare accennando anche una risata nel ricordare le condizioni dell’uomo che, a bordo del gommone, non riusciva a leggere la bussola perché ciondolante privo di forze. Mentre parla, mima i gesti con cui lui e gli altri ‘passeggeri’ tentavano di buttare fuori dal gommone l’acqua con le mani e i vestiti. Un tentativo durato 2 giorni e 2 notti. 48 ore a ‘spalare’ l’acqua che li copriva fino agli stinchi nudi. “Prima di salire ti fanno buttare le scarpe – ci spiega – perché puoi bucare o rovinare il gommone”. Questo è stato il viaggio in mare di Yvan, dopo un percorso di due anni in mezzo al deserto e a terre straniere, tra fucili e incarcerazioni immotivate. “Noi siamo solo merce, siamo soldi che camminano. E’ un traffico, niente di più”. Un traffico finito con una luce, come la famosa immagine associata al tunnel. Il tunnel di Yvan è finito nel momento in cui, esausto e senza più speranze di vedere terra, ha scorto una luce. Una nave, la sua salvezza. La sua come quella degli altri 115 come lui su quel gommone bucato. Una gioia e una frenesia tale da impedire a due di loro di raggiungere la meta. Per loro, il viaggio si è fermato in mare, coperti da quel gommone sopra cui avevano viaggiato e combattuto, e sotto cui sono finiti per la fretta di assaporare la salvezza.
Oggi Yvan è tra quei sopravvissuti che vogliono prendersi ciò che gli è stato negato per troppo tempo. 16 anni, un’esperienza di vita impossibile e ingiusto da racchiudere in un’intervista di pochi minuti. Una forza propria solo di chi ha combattuto per il diritto alla vita. E’ un adulto nel corpo di un adolescente, che timidamente viene fuori quando gli chiediamo del suo futuro: abbassa lo sguardo, alza le spalle e con l’adorabile insicurezza di un bambino confessa che non sa ancora cosa vuole fare ‘da grande’. Come se non fosse già troppo grande. Intanto pensa a studiare. Frequenta l’istituto alberghiero ‘Antonello da Messina’ ed è in attesa dell’ispirazione che gli permetterà di scegliere l’indirizzo più consono alle sue qualità. Per il momento assapora tutto ciò che non ha mai avuto: una famiglia che non fa che ringraziare, amici della sua età. Un’età che finalmente si gode. “In Camerun, i momenti in cui dovevo andare a scuola e ridere, ero fuori in strada a cercare il mio diritto di vivere”.
E’ forte Yvan. E’ grato. E’ un esempio non solo per i suoi compagni, che lo hanno accolto come uno di loro. E’ un esempio per tutti. E’ coraggioso. Quando gli chiediamo se ha ancora paura, ci risponde:
“Un uomo che non ha paura non può vincere. E’ quella paura che ti fa andare avanti”. YVAN 17 ANNI, CAMERUN.
GS Trischitta