Elena Ferraro: l’imprenditrice riconosciuta come colei che ha saputo dire di ‘no’ a Mario Messina Denaro, cugino del superlatitante Matteo Messina Denaro. Avrebbe dovuto riciclare denaro di provenienza illecita tramite il suo centro polidiagnostico di Castelvetrano, ma il suo ‘no’ ha risuonato con la stessa decisione con cui ha ignorato le pressioni di un altro boss, questa volta di Salemi, Michele Gucciardi. Una determinazione forte, incorruttibile, che l’ha portata anche al conferimento di un riconoscimento durante il Brand Italy tenutosi a Doha, nel novembre scorso. A premiarla come miglior imprenditore italiano capace di guidare un’azienda nella legalità all’interno di un territorio difficile, lo sceicco Ali Bin Thamer Al Thani, della famiglia reale del Qatar.
Noi de ilcarrettinodelleidee l’abbiamo intervistata, cercando di capire cosa spinga una donna a lottare contro un potere apparentemente invincibile, riuscendo al contempo a dimostrare che la giustizia, quella vera, esiste e non bisogna mai smettere di crederci.
Sei da tempo protagonista della cronaca per aver rifiutato di pagare il pizzo a Mario Messina Denaro. Raccontaci come è andata.
“Pizzo è improprio, dato che la proposta di questo ‘signore’ era una sorta di affare, un po’ più arzigogolato di un semplice pizzo. Molti giornalisti forse per motivi di spazio hanno pensato di ridurlo al termine pizzo. In realtà mi chiedeva di stipulare una convenzione tra la mia struttura sanitaria che gestisco a Castelvetrano e un’altra clinica del palermitano. Io avrei dovuto sovrafatturare le prestazioni che erogavo. In altre parole, il pagamento delle prestazioni lo avrei dovuto ricevere attraverso questa struttura del palermitano, sovrafatturando le suddette prestazioni. Il tutto per ripulire del denaro di provenienza dubbia. Se avessi accettato, sarei diventata una sorta di lavatrice che doveva ripulire questo denaro. La sovrafatturazione inoltre creava un fondo che avrei dovuto consegnare a questo ‘signore’, o a chi per lui, per mantenere le famiglie dei carcerati. Lui me lo disse chiaro e tondo: ‘a noi servono soldi, i ragazzi hanno bisogno degli avvocati’. Di fatto, oltre a consegnare i soldi avrei dovuto riciclarli, quindi più che di pizzo si può parlare di riciclaggio di denaro sporco. Nel trapanese c’è una forma diversa di pizzo. Lo chiamiamo pizzo ma in senso lato. E’ una forma particolare di estorsione, non come nel palermitano. Nel trapanese c’ è una vera mafia imprenditoriale che si infiltra all’interno del tessuto societario. Loro avrebbero iniziato con me in questo modo, per poi mettermi in una posizione di minoranza e gestire loro quello che volevano all’interno della struttura. E’ una mafia diversa.”
Com’è stato il dopo ‘no’?
“Ho avuto fortuna perché in precedenza la struttura non era convenzionata. Dopo i fatti ho condotto un’altra battaglia all’interno di questa guerra di legalità, per ottenere il trasferimento di una convenzione da una struttura che avevo a Salemi qui a Castelvetrano. Subito dopo gli arresti del 13 dicembre la mia struttura ha avuto la possibilità di ottenere questo trasferimento. Non ho avuto un calo di clientela perché la gente viene da noi con la ricetta, senza pagare.”
Quindi la continuità dell’affluenza presso la tua struttura è legata a questioni economiche, non alla solidarietà?
“Per amore della verità, Castelvetrano si è divisa in due: da parte dei giovani, anche grazie all’intervento di sensibilizzazione di un preside straordinario che ha sempre inculcato nei giovani valori di legalità, ho avuto massima solidarietà e supporto. Purtroppo da parte degli adulti, di quei castelvetranesi che considerano ancora quell’uomo come un ‘eroe’, c’è stata la totale indifferenza. Da parte di altri c’è stata addirittura una sorta di chiusura nei miei confronti. Mi capitava di entrare in un bar e sentirmi dire: ‘ah! Ecco l’infame’. Non è stato facile. Mi piace parlare solo degli esempi belli, della parte sana di Castelvetrano“.
Le associazioni antimafia ti sono state vicino? Hanno in qualche modo determinato la tua battaglia? Sappiamo che essere partecipi può significare sia crederci, essere determinati e combattere a fianco delle vittime della mafia, o usare questi episodi come una semplice bandiera. Qual è stato il comportamento effettivo nei confronti della tua esperienza e della tua scelta?
“Io non faccio parte di nessuna associazione, per scelta. non voglio spettacolarizzare la mia vicenda. Le associazioni sono state partecipi, hanno sostenuto la mia scelta. Io ho cercato di non essere supportata da nessuna associazione e da nessun partito politico. Loro hanno comunque cercato di starmi a fianco e hanno manifestato la propria solidarietà, ma io ho fatto una scelta anche in questo senso. Non far parte di nessuna associazione, di continuare a svolgere il mio lavoro e fare il mio dovere. Mi sono vicine, fanno molte cose importanti ed è altresì importante che ci siano. Quando ho bisogno, nei momenti di sconforto, non è l’associazione in sé, sono le persone che manifestano solidarietà e vicinanza. La mia vera forza sono le forze dell’ordine e la magistratura. L’imprenditore che si ribella NON E’ SOLO, è importante sottolinearlo. Io non sono mai stata lasciata sola, sin dal primo giorno in cui ho messo piede alla squadra mobile per denunciare”.
Come vengono percepiti i vari arresti che si susseguono? Sono per te una soddisfazione personale o li vivi come il giusto e corretto svolgersi di un iter legale che funziona?
“E’ sicuramente lo svolgersi di un corretto iter legale. E’ anche vero però, che ho vissuto veri momenti di sconforto, questo non lo si può negare. E’ normale che, dentro di me, quel residuo di rabbia nei confronti di queste persone si plachi. Ma io non ho mai avuto dubbi, ho sempre avuto molta fiducia nella giustizia”.
Hai sicuramente vissuto le tue ansie e le tue preoccupazioni con chi ti sta accanto. Come hanno affrontato questo iter le persone a te vicine? In che modo riescono a starti accanto?
“Fino al momento degli arresti non potevo parlare con nessuno. Dopo gli arresti, i miei parenti hanno vissuto il tutto con orgoglio. Siamo una famiglia molto unita ed equilibrata. Riusciamo ad affrontare con serenità i problemi che si intersecano con la nostra vita. Da parte dei miei dipendenti ho avuto lo stesso sostegno. Loro sono la mia forza, mi hanno sostenuto anche nei momenti in cui sono stata più assente manifestando una sincera solidarietà. Gli amici veri sono rimasti al mio fianco. Tanti sono andati via, si sono un po’ persi, ma non è corretto definirli amici. Chi ancora vede in Matteo Messina Denaro il semidio ovviamente non mi saluta più“.
C’è ancora gente che cerca lavoro tramite queste persone?
“Ne esiste ancora. Quello che è successo a Salemi, nell’altro centro che gestisco ne è la dimostrazione. Ho licenziato e querelato un tecnico di radiologia per azioni illecite. Lui si è rivolto a Michele Gucciardi, capo mafia di Salemi arrestato poco tempo fa. Lo stesso Gucciardi ha cercato tramite contatti comuni di incontrarmi. L’ho incontrato più volte, ma ho subito contattato la squadra mobile, come ho sempre fatto. Lui cercava di difendere la causa di questo suo ‘amico’ o meglio ‘protetto’, ma io ripetevo sempre i miei ‘no’. Non riuscivo a capire cosa c’entrasse lui con una decisione aziendale. Continuava a dire di garantire per il tecnico che era stato licenziato, e io continuavo a chiedere: ‘ma lei chi è?!’. Davanti ai miei rifiuti cominciò a cambiare strategia. Sapeva che in quel periodo io volessi trasferire la convenzione da Salemi a Castelvetrano, e che a causa di una burocrazia ostile e poco amica non riuscivo a farmi riconoscere quello che era un diritto. Conoscendo la situazione, mi disse che se avessi riassunto il tecnico avrei ottenuto tutto ciò che potevo desiderare. Dentro di me ho sempre creduto che la giustizia non fosse un’illusione e ho continuato sulla mia strada. Il tempo mi ha dato ragione: dopo la mia battaglia ho ricevuto la telefonata del presidente Crocetta e dell’assessore Borsellino, alla quale raccontai la mia odissea che durava ormai da 6 anni. Entro pochi giorni mi hanno riconosciuto ciò che era un mio diritto“.
Sicuramente avrai rapporti con i giovanissimi, con le scuole. Confronto non facile, perché dietro ai bambini o ai ragazzi ci sono sempre i genitori. Per concludere, cosa ti resta dentro di positivo e cosa di negativo?
“Ho iniziato a parlare nelle scuole a partire da Castelvetrano, in particolare dal liceo scientifico frequentato dalla figlia di Matteo Messina Denaro, Lorenza. Non sono mai riuscita ad incontrarla, con grande dispiacere. Ovviamente, ogni qual volta si organizzavano incontri sulla legalità, lei e i cugini erano sempre assenti. Nonostante questo, mi piace l’idea di entrare nelle scuole di Castelvetrano. Qui si parla poco di legalità, e il capire di non essere riuscita a fare breccia nel cuore delle persone ancorate a un’idea sbagliata mi dispiace molto. Anche il vedere che molti ragazzi crescono in un’ atmosfera inquinata. La stessa figlia di Matteo Messina Denaro non ha nessuna colpa. E’ una ragazzina, e questo mi dispiace molto. La cosa che invece mi dà gioia è proprio il parlare con i ragazzi. Ho fatto una scelta, quella di non spettacolarizzare. Sono stata invitata in molti programmi tv, ma ho sempre rifiutato. Non ho nessuna pretesa di vetrine o passerelle. Ho deciso di andare nelle scuole perché è ai ragazzi che dobbiamo raccontare che c’è una speranza. Se loro vedono un esempio concreto, con tutte le emozioni, ti guardano con ammirazione. Adoro la genuinità delle cose che mi chiedono. E’ bello confrontarmi. E’ sui ragazzi che dobbiamo puntare. In loro che dobbiamo credere”.
‘Credere’. Una parola magica che è ancora bello pronunciare, seppur con un po’ di amaro in bocca, con la consapevolezza che ancora molti non vedono il male dove è in realtà evidente. ‘Credere’ che questa cecità possa essere affrontata, e curata. ‘Credere’, come ha fatto Elena, e come continua a fare, ogni giorno. Al suo ‘no’, ovviamente, si aggiunge anche il nostro.
NO!
Gaia Stella Trischitta