Il 2011 è l’anno della celebrazione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, quale traguardo storico dell’identità e della coesione nazionale. Un appuntamento che suscita entusiasmo grazie agli appelli del Presidente Napolitano e che, allo stesso tempo, è sottoposto agli attacchi volgari della Lega. Le sembra che l’Unità sia un valore realmente condiviso e sentito nella società?
Dobbiamo chiederci quale Unità d’Italia vogliamo celebrare oggi. Vi sono diversi modi di approcciarsi ad una ricorrenza così importante che deve coinvolgere tutti, soprattutto le nuove generazioni.
A me pare che a prevalere sia un approccio retorico. E’ inevitabile che nelle iniziative ci sia una forte dose di narrazione retorica volta a mettere in luce solo ed esclusivamente gli aspetti celebrativi del processo unitario. Oscurare tuttavia quelli negativi non va bene, alla fine si rischia di rendere poco credibile un cammino molto travagliato. Un’eccessiva rappresentazione epica dell’Unità d’Italia non dà spazio ad una riflessione di ampio respiro sui progetti nazionali, nonché sui valori e sui principi che hanno animato il periodo risorgimentale. Bisogna avere il coraggio di avviare una trattazione critica dei fatti e delle scelte politiche operate prima e dopo la fatidica data del 1861 e che hanno segnato la vita di interi territori e popolazioni. E’ un limite guardare l’Unità d’Italia come una sorta di totem da adorare e venerare per richiamare i cittadini ad un senso di comunione emotiva. Si rischia di sprecare una grande occasione per comprendere le radici problematiche di una Unità che nel corso dei decenni si è sempre più sfilacciata, non solo sotto l’evidente profilo economico, ma anche della coesione dei territori, soprattutto tra Nord e Sud, e dei diritti di cittadinanza.
La lega, quindi, ha ragione?
Per niente. I suoi attacchi rientrano nell’altro approccio, quello di chi vuole cancellare i valori e i principi del Risorgimento e il lungo percorso che dall’Unità d’Italia, attraverso le due guerre mondiali e il dramma del periodo fascista, ci ha portato alla Repubblica. Sono gli stessi che ogni giorno mettono in discussione la nostra Carta costituzionale, pensando che per il Paese non ci sia più un futuro comune, utilizzando magari un federalismo fiscale che prepara la rottura definitiva tra Nord e Sud. Tali differenze, che pur ci sono, sono spiegate attraverso una banale volgarizzazione delle cause che le hanno determinate, tutte a carico del Sud. In altre parole si tratta di un approccio funzionale alla propaganda e al tornaconto elettorale di una parte minoritaria del Paese che, proprio dal binomio Settentrione/Meridione, ha tratto notevoli benefici. Basti pensare alle scelte di politica economica che già all’indomani dell’Unità mortificavano la produzione agricola e manifatturiera del Mezzogiorno e incoraggiavano lo sviluppo industriale e i commerci del Nord. Una disparità di trattamento perpetuatasi nel tempo, che ha assegnato al Nord il ruolo di locomotiva del Paese e al Sud quello di mercato passivo di consumi e di accaparramento della sua migliore forza lavoro, grazie ad un’emigrazione forzata dal bisogno e con elementi di discriminazione anche violenti.
Lei non è d’accordo né col primo, né con il secondo approccio.
Entrambi si basano su letture parziali e ingiuste dell’Unità d’Italia e soprattutto forniscono soluzioni sbagliate, se non addirittura pericolose per il futuro del nostro Paese e dei suoi cittadini.
Qual è la sua lettura dell’Unità d’Italia?
C’è un altro approccio: quello positivo ed innovativo che, soprattutto nel Mezzogiorno, deve diventare forte e dirompente. Naturalmente ciò richiede un’analisi seria e rigorosa del fatto incontrovertibile: non c’è mai stata una vera Unità, ma una sostanziale divisione che ci consegna oggi un’Italia ancora duale. Il Nord produce e il Sud consuma i suoi prodotti, appunto; il Nord organizza i migliori servizi sociali, sanitari, formativi; il Sud si struttura in Regioni assistenziali. Al Nord la politica progetta gli interventi nel campo produttivo e infrastrutturale, senza tralasciare la dimensione clientelare e burocratica e anche quella collusiva con le mafie; al Sud la politica abdica in partenza ad una funzione progettuale e corre tutta a gestire quel maledetto sistema dell’intermediazione burocratico-clientelare e spesso affaristico-mafiosa.
Ci spieghi meglio.
Il patto che ha tenuto insieme il Paese dall’Unità d’Italia ai giorni nostri si sta lentamente sfaldando. Quell’accordo tacito per cui il Nord produce beni e attorno vi organizza i migliori servizi (dalle scuole agli ospedali) e il Sud consuma i prodotti del Nord e attorno vi organizza reti assistenziali è saltato. Questo modello, voluto dalle classi politiche che si sono succedute fino ad oggi, è stato messo in crisi dalla globalizzazione. Il Settentrione, infatti, non hanno più bisogno dei mercati del Meridione. E se in passato le industrie del Nord avevano necessità della manodopera del Sud oggi sono migliaia i giovani meridionali più qualificati che ogni anno lasciano la propria casa alla ricerca di un futuro migliore. Una nuova migrazione che impoverisce il Mezzogiorno delle sue migliori intelligenze e professionalità.
Responsabilità solo del Nord?
Assolutamente no. Anche le classi dirigenti del Sud hanno partecipato alla costruzione dell’Italia duale, tutta a danno dei territori del Mezzogiorno.
Come uscirne?
Intanto, selezionando una classe dirigente onesta e capace di coniugare legalità e sviluppo, facendo della lotta alla mafia e all’intermediazione il caposaldo fondamentale dell’azione politica. E poi avviando una riflessione profonda sull’Unità d’Italia, che faccia capire gli errori commessi per ricostruire un nuovo paradigma politico e culturale dove, sia il Nord che il Sud, siano terre di produzione e consumo, nel rispetto della sostenibilità ambientale di ogni territorio. Penso ad esempio, ad un indice che misuri il livello qualitativo e quantitativo della dotazione infrastrutturale (strade, porti, interporti, fibre ottiche …) e dei servizi (sanitari, sociali, scolastici, universitari, di ricerca …) al fine di stabilire un piano di investimenti che metta tutte le Regioni nelle stesse condizioni di produrre benessere, legalità e sviluppo, senza discrezionalità, arroganze del Nord e piagnistei del Sud.
Così possiamo recuperare il senso più nobile e autentico del nostro stare insieme e costruire un nuovo patto di Unità che recuperi la migliore memoria e avvii una radicale stagione di cambiamento.
L’Unità d’Italia è legata a doppia mandata con l’annoso tema del divario tra il Nord e il Sud del Paese. È questa la sua ricetta per affrontare la “questione meridionale” e ricostruire una nuova unità d’Italia?
Il problema delle differenze che separano il nord dal sud continua ad esistere. A 150 anni dall’Unità d’Italia possiamo affermare che la “questione meridionale” è più grave che mai e nelle varie aree territoriali del sud permangono ritardi che ci impongono una rigorosa verifica delle cause che hanno determinato tale situazione e allo stesso tempo predisporci a scelte di grande innovazione e cambiamento.
I dati parlano chiaro. Tutti i rapporti e le indagini statistiche evidenziano ancora una volta i gravi ritardi occupazionali e produttivi, come pure le difficoltà in cui versano i territori del Mezzogiorno in termini di diritti negati e di mancanza di opportunità di lavoro, soprattutto per i giovani.
La “questione meridionale” ritorna. Si discute, ci si divide. Si paventano partiti del Sud, banche del Sud e misure inedite. Tuttavia è facile prevedere l’ennesimo fallimento. Riproporre la “questione meridionale” come si è sempre fatto non produrrà niente di buono. Dopo tanto affannarsi si rischia di partorire il topolino: la solita richiesta di maggiori risorse al governo centrale, il solito rito meridionalista. Ci vuole una svolta vera e riformista, moderna e progettuale.
Secondo lei ci sono le condizioni perché si verifichi questa svolta?
Affrontare e risolvere la “questione meridionale” vuol dire affrontare e risolvere la “questione delle classi dirigenti”. Da loro dipende lo stato di sottosviluppo in cui versa il Mezzogiorno d’Italia. E non mi riferisco soltanto alla classe politica, ma anche a quella imprenditoriale e sociale. In ognuna di esse la parte più forte ha preferito mantenere le sue rendite di posizione, consolidando i rapporti di forza esistenti a scapito del cambiamento e del progresso.
Così si spiega l’avanzare, nel corso dei decenni, di un fronte conservatore che ha impedito lo sviluppo e l’emancipazione del Sud. Un fronte così potente che anche davanti al disastro economico e sociale prodotto ha sempre potuto contare su una larghissima base di consenso. In ogni ambito si è venuto a creare un sistema di potere burocratico-clientelare e spesso affaristico-mafioso, che ha tenuto in pugno tutto e tutti. In questo modo certa politica è riuscita ad assicurarsi i voti, certa imprenditoria ad ottenere soldi e appalti pubblici, la mafia ad espandere il proprio dominio. Un brodo di coltura alimentato dalle politiche assistenziali di chi era al governo e ha sempre considerato il Meridione come una terra di nessuno, da trattare come granaio elettorale. In nome di tutto ciò sono stati chiusi occhi e tappate orecchie e bocche davanti a scandali e nefandezze.
Chi ha avuto in mano il potere nel Mezzogiorno ha scartato la difficile, ma positiva, strada del bene comune in cambio di uno squallido assistenzialismo, senz’altro molto più facile da gestire per coltivare consenso e privilegi personali.
Ecco perché affrontare seriamente la “questione meridionale” vuol dire rinnovare il sistema politico, abbandonando le classiche categorie e sfidando i partiti sul campo dell’innovazione, della legalità e dello sviluppo.
La politica deve misurarsi sui problemi della società e della gente, attraverso proposte concrete e praticabili e attorno a queste costruire politiche che rispondano alle esigenze delle persone. A nulla servono le posizioni oltransiste del radicalismo ideologico, anzi, esse non fanno altro che relegare le forze progressiste a posizioni marginali e di pura testimonianza. Non ha senso continuare a ragionare ancora con le vecchie categorie destra/sinistra, fascisti/comunisti. Bisogna cambiare i paradigmi del quadro politico secondo lo schema innovatori/conservatori.
Altro che investimenti, c’è chi invece intende risolvere il problema col federalismo affinchè ogni territorio possa gestire in proprio la ricchezza che produce.
Il federalismo è nemico del Mezzogiorno? Sì, se il federalismo avvantaggerà le regioni settentrionali e penalizzerà quelle meridionali, lasciando invariate le distanze economiche e sociali che ancora esistono. No, invece, se il federalismo sarà solidale e capace di far camminare tutti insieme, valorizzando le potenzialità che in ogni regione esistono e accelerando il cammino delle regioni meridionali per portarle al passo di quelle del centronord.
Insomma, l’Italia va ripensata e riorganizzata come un sistema-paese che sa fare squadra, che sa unire le forze pur rispettando le differenze e le peculiari caratteristiche di ogni territorio. Così il nuovo assetto federale sarà una marcia in più e non la rovina dell’Unità d’Italia, a danno soprattutto del Mezzogiorno.
Il federalismo quindi può rappresentare un’opportunità per il Mezzogiorno?
Così come il governo lo intende danneggerebbe e accentuerebbe le differenze tra la parte più ricca della Penisola e quella più povera.
Tutte le regioni devono essere messe nelle condizioni di diventare terre di produzione secondo le loro vocazioni e peculiarità. Lo Stato, quindi, fissi degli indici di sviluppo e intervenga in quei territori che si trovano al di sotto per garantire a tutti i cittadini e alle imprese gli stessi diritti e le stesse opportunità, indipendentemente dal luogo in cui si trovano.
L’autonomia delle Regioni, all’interno di un quadro nazionale federato secondo i principi di solidarietà e di sussidiarietà, può rappresentare un buon tavolo di sfida, ma entrambi i livelli, quello nazionale e quello locale, devono fare la loro parte.
Solo se si investe sulle infrastrutture, materiali e immateriali, sulla scuola, sulla ricerca, sull’energia alternativa, sulla fiscalità di vantaggio, sulla lotta alla mafia … si può far sviluppare il Meridione d’Italia, attuare il federalismo e mettere in moto l’intero Paese.
Il governo, invece, non fa altro che fare figli, il Nord, e figliastri, il Sud, aumentando il divario tra le zone più ricche e quelle più povere del Paese. Il 18 novembre del 2010 il Comitato interministeriale per la programmazione economica ha destinato al Settentrione ben 20 miliardi di euro per la realizzazione di infrastrutture e soli 200 milioni per il Mezzogiorno.
Questo l’interesse del governo nei riguardi del Sud e della “questione meridionale”, a fronte del fatto che sia il ministero degli affari regionali, sia lo stesso Cipe siano guidati da due meridionali, di cui uno peraltro meridionalista. Per Berlusconi conta molto la “questione settentrionale” o, per dirla in modo più esplicito, il sostegno della Lega, che non si fa scrupoli a ricattare il governo se non ottiene quello che chiede. Con l’avallo dei politici del Sud, facenti parte del suo schieramento, pronti sempre e comunque a dimostrargli sudditanza e fedeltà incondizionata.
Ancora una volta l’esecutivo abbandona il Mezzogiorno a se stesso, salvo poi in campagna elettorale utilizzarlo come serbatoio di voti da rastrellare con il clientelismo e la propaganda.
Il meccanismo è ormai collaudato: tenere il Sud in agonia in modo tale da poter fare leva sui bisogni primari delle persone e sulle false promesse. Al resto provvede la disinformazione messa in atto quotidianamente dalla Lega, che lamenta la redistribuzione delle risorse statali a favore del Sud, salvo poi scoprire che il governo, ad oggi, ha dirottato decine di miliardi di Fas al Settentrione; un esempio per tutti: il pagamento delle multe per le quote latte degli allevatori Padani.
Così aumenta il gap economico tra Nord e Sud e di conseguenza le disparità sociali e culturali. L’Italia non può essere governata secondo le logiche al ribasso della convenienza e del consenso.
È evidente, però, che a dettare la linea della politica economica italiana sia soltanto il Nord e che a decidere dell’assetto istituzionale ed economico del Paese sia principalmente la Lega. Il Mezzogiorno cosa fa, resta a guardare?
Il Sud deve farsi trovare pronto alla caduta della Seconda Repubblica, che sta franando perché ha tradito le speranze e le aspettative dalle quali era nata e perché, soprattutto, non ha fatto leva sul rapporto legalità e sviluppo.
In questi ultimi vent’anni, infatti, la legalità è stata ripetutamente offesa e i diritti dei cittadini calpestati; hanno prevalso intese di casta, di cricca e di malaffare. Così sono state mortificate le potenzialità di sviluppo del Meridione d’Italia, nonché la competitività produttiva del Nord.
Su cosa si deve puntare la politica per ritrovare di nuovo la bussola necessaria a governare questo Paese?
La politica, dopo anni di berlusconismo, è nella polvere e non è in grado di affrontare le sfide del nostro tempo. A destra come a sinistra ci sono istanze di rinnovamento per riconquistare serietà, credibilità ed esprimere una grande progetto, che abbia come fondamento il binomio legalità/sviluppo. Su questo vanno costruite, al di là dei classici schieramenti, forze ed alleanze politiche capaci di fare le riforme indispensabili per andare avanti.
Appare estremamente difficile che la classe politica possa fare scelte di rottura col passato e decida di fare scelte inedite per riedificare il Paese su nuove basi.
Bisogna riscrivere quel patto per rifondare una nuova Unità d’Italia, dove tutte le regioni siano terre di produzione, ognuna secondo le proprie vocazioni e specificità. È questo il campo da gioco su cui si deciderà il futuro del nostro Paese.
Per fare questo è necessario che le classi dirigenti del Mezzogiorno abbiano il coraggio di assumersi le proprie responsabilità, sfidando il sistema politico sul terreno dell’innovazione vera e radicale. Bisogna superare gli steccati ideologici e di schieramento per affrontare e risolvere i problemi reali della gente. È quello che stiamo cercando di fare in Sicilia con il sostegno alle riforme. Solo se riusciremo a riportare in mano pubblica la gestione dell’acqua, a radicare e diffondere la raccolta differenziata, a eliminare gli sprechi e costruire una sanità d’eccellenza, ad avere una pubblica amministrazione efficace ed efficiente … diventeremo credibili e forgeremo una politica nuova capace di perseguire il bene comune.
La buona politica, quindi, è chiamata a creare le condizioni per liberare i cittadini dal condizionamento clientelare e mafioso e puntare sulla qualità del consenso. Come diceva Libero Grassi “Se i politici hanno un cattivo consenso faranno cattive leggi”. La lotta alla mafia, per la legalità e lo sviluppo, deve diventare la priorità da perseguire con provvedimenti che colpiscano al cuore gli interessi delle organizzazioni criminali e sprigionino le risorse e le energie sane del nostro Paese.