QUANDO IL FALLIMENTO EDUCATIVO “INNESCA” IL REATO

Secondo l’art. 2048: “Il padre e la madre, o il tutore, sono responsabili del danno cagionato dal fatto illecito dei figli minori non emancipati o delle persone soggette alla tutela, che abitano con essi. La stessa disposizione si applica all’affiliante. I precettori e coloro che insegnano un mestiere o un “arte sono responsabili del danno cagionato dal fatto illecito dei loro allievi e apprendisti nel tempo in cui sono sotto la loro vigilanza. Le persone indicate dai commi precedenti sono liberate dalla responsabilità soltanto se provano di non avere potuto impedire il fatto”.

 E secondo l’art. 147:: “Se il figlio compie un illecito, i genitori possono andare esenti da responsabilità se provano di aver impartito al figlio un “educazione normalmente sufficiente ad impostare una corretta vita di relazione in rapporto al suo ambiente, alle sue abitudini, alla sua personalità”. “Se il comportamento illecito del minore vicino alla maggiore età dimostra il fallimento educativo dei genitori, gli stessi sono civilmente responsabili dei danni cagionati dal figlio”. Cass. Civ., sentenza n. 9556/2009. Guardando la nostra storia attuale, ci imbattiamo in una società marcata generalmente da un senso profondo di fallimento nell’ esperienza educativa. In effetti l’esaltazione dell’interesse individuale, della ricerca del proprio vantaggio, comporta una serie di conseguenze o implicazioni, nei rapporti verso gli altri e verso la realtà in genere. I nostri giovani non sanno più perché sia importante il matrimonio; non hanno più le ragioni per cui si possa e si debba stare insieme tutta la vita; la loro idea dell‟amore è fragilissima, esposta ad ogni tempesta sentimentale.

La nostra è la società dell’anticoncezionale; è la società abortiva, che uccide i suoi figli prima che nascano e crea le leggi perché questo si possa fare lecitamente. La nostra è la società dei single: ognuno è un microcosmo indipendente, senza legami, connesso alla grande rete informatica che gli fornisce ormai tutto quello di cui ha bisogno. Ciò per cui oggi adulti e giovani si entusiasmano è la tecnologia o il divertimento. Tuttavia per capire questa situazione bisogna scendere ancora più in profondità e vedere cosa c’è alla radice di tutto questo. L’educazione è un processo storicamente e culturalmente situato e come tale deve fare i conti con la qualità della vita che caratterizza il luogo dove l’atto educativo accade. La cronaca quotidianamente racconta di eventi drammatici che hanno i giovani per protagonisti. Il momento storico richiede un approccio complesso. Vi è, da un lato, la tentazione di affrontare a valle le diverse manifestazioni di disagio, spinti dalla pressione della cronaca, con comportamenti, ora tolleranti, ora autoritari. Dall’altro si teorizza come unica soluzione un generico ritorno a valori, che, se hanno conservato un senso per gli adulti, risultano del tutto insignificanti per i giovani. È agli adulti, innanzitutto, che bisogna guardare. Incerti e sradicati, spesso egocentrici, individualisti e timorosi, costruiamo una società iniqua, attorno ai miti del denaro, del sesso e del potere.

 Non ci avvediamo che i ragazzi, i giovani sono anch’essi immersi in una sorta di presente astorico. Schiacciati dalla fatica di progettare il futuro in termini esistenziali, sociali, politici; assorbiti in emozioni forti e ed estemporanee, per le quali non posseggono un alfabeto e, perciò, insignificanti per costruire nel profondo la loro identità e più autentiche relazioni. Incapaci di gestire e rielaborare sentimenti, abbandoni, frustrazioni, dai quali sono stati protetti da adulti ansiosi ed insicuri, o nei quali sono stati lasciati soli da adulti emotivamente assenti, occupati, ora nella sopravvivenza, ora nella carriera. Così, oggi più che mai, educare non vuol dire enunciare valori, imporre regole; né, al contrario lasciar fare, fidando in un illusorio spontaneismo. Non si può neanche pensare, per altro, di separare i diversi aspetti della personalità, attribuendoli ai diversi contesti formativi. Famiglia, scuola, parrocchia, gruppi sportivi, ma anche la città nel suo complesso, la politica, i mass media; e poi il gruppo dei pari formano, con o senza intenzionalità la persona nella sua integralità. I diversi aspetti sono inseparabili, eppure ai diversi educatori spesso sfugge il compito più alto, più urgente: accompagnare l’integrazione delle parti, l’orientamento di fondo, la capacità dell’individuo di tenere insieme le direzioni della sua esistenza. Sembrerebbe l’unica via per aiutare i giovani a esprimerle e ad accoglierle come parti fondanti il sé e non come oggetti problematici da esorcizzare o rimuovere. L’educazione affettiva contribuisce in maniera determinante alla costruzione dell’identità di un individuo: la carenza affettiva nel primo anno di vita «arresta lo sviluppo in ogni settore della personalità».

Nell’infanzia un ‘identità autentica si sviluppa grazie a figure di attaccamento che amano incondizionatamente il bambino. D’altro canto, l’eccessiva condiscendenza degli adulti, l’incapacità a dire un „no‟ determinato, ma sereno e motivato, assecondano una sorta di delirio di onnipotenza. La capacità relazionale, la reciprocità, la giusta tensione dell’amore di sé e dell’altro sono un’impegnativa conquista: diventare persone aperte e disponibili, capaci di amare, perdonare senza soccombere, tollerare e superare i nostri sbagli e quelli altrui. C’è sempre comunque bisogno di un faticoso percorso di amore ricevuto, di equilibri conquistati, di accoglienza del proprio limite e di riconoscimento del proprio valore, di apertura all’altro e di accettazione del proprio ed altrui fallimento, di sempre nuovi inizi, di compagnia con altri adulti in una relazione autentica, di comunità che non giudicano e non si sostituiscono, ma che accolgono ed accompagnano, suggeriscono.

I contesti educativi, nuovi o tradizionali, dovranno abbandonare atteggiamenti di chiusura o rifiuto reciproci. Un clima autentico, empatico favorisce l’emersione del vero sé, di un nucleo identitario ed orientante, aiuta le persone a togliere la maschera dietro la quale nascondono quanto di più vero sono, provano, credono, vivono, aiutandole a scegliere chi e come essere e vivere.