Lei è sempre vestita di nero. I capelli biondi che cadono afflitti su quel lutto perenne. La faccia bianchissima e lo sguardo talmente assente che mi chiedo se realmente stia ascoltando la gente che si affanna attorno a lei.
Sono passati quasi sette anni da quando Angela – la chiamerò così perché mi dà l’impressione di un an angelo distorto che veglia su anime che forse solo lei al mondo non può dimenticare – sette anni da quando Angela ha perso i suoi due figli. Sette anni che Angela si aggira senza camminare nelle aule del Palazzo attendendo rispettosa e passiva quella giustizia di cui comunque non se ne farà nulla. Perché Angela ha perso la ragione della sua vita. Siede in silenzio, in un angolo ma da dove può ben afferrare tutto ciò che si rovescia sui microfoni roventi, passati di mano in mano tra gli avvocati. Toghe bardate, nere ma non più nere del lutto che porta. Mi chiedo davvero se le ascolti. Se le interessino quelle minuziose o pedanti ricostruzioni di analisi sismiche e geologiche e idriche con cui professionisti attempati sfiorettano tra di loro. Mi chiedo se ascolti il giudice che con il suo tono pacato modera e ascolta profluvi di minuti di tecnicismi in cui tassello per tassello rivivono le ore di morte di quel lontano ottobre 2009. Si perché l’ottobre 2009 è davvero lontano. E’ un tempo talmente distante che non può non cristallizzarsi in queste parole tecniche e in questi sofismi giuridici.
Oramai è Storia. Di quella che siamo abituati a leggere nei libri di scuola. Mica ci fa soffrire! Mica ci turba l’animo! La Storia non può farci male. E’ Storia. Può incuriosirci, può stupirci, ma non si insinua sotto la pelle rubandoci il sonno. Ecco a questa madre avviene. Eppure lei assiste con l’occhio spento a questo mondo parallelo che non porta in scena un dolore ma solo un fatto oggettivo, una responsabilità, un “nesso di causalità” per dirla all’”avvocatesca”. Io sono là. Faccio parte di quella pletora che udienza dopo udienza snocciola le sue considerazioni su incolpevolezza e irresponsabilità. Faccio parte di una schiera di guerrieri armati sino ai denti che si danno battaglia pur di portare a casa sana la pelle del loro cliente. Ed è giusto che sia così, penso. E’ il nostro lavoro. Lo dice la Costituzione. Tutti hanno diritto a una difesa. Ma udienza dopo udienza quella figura bionda vestita di nero mi assilla.
Che motivo c’è di esporsi ogni volta a un ludibrio delle emozioni che si ripete impunemente. Perché si, ognuno ha diritto a una difesa e quindi in aula sentirete solo che Tizio non ha colpa e Caio non poteva sapere ciò che sarebbe avvenuto. E’ più che normale. Tutti lo sanno. Perché assistervi se non puoi non pensarla ben diversamente. I tuoi figli sono morti, quindi per te non può non esserci un colpevole, un responsabile. Lo ammetto, non capisco questo ostinato atteggiamento da spettatore muto. Non ne vedo il significato. Non lo capisco subito. Prima penso che sia solo un mio personale modo di vedere. Mentre guardo questa signora nera e diafana penso che non condivido l’ansia di assistere a ogni ennesima stilla di ricordo sulla vicenda. Oggi la sentenza. Lei è sempre lì ed io continuo a non condividere. Starà diventando un giudizio il mio? Starò giudicando questa persona per il modo in cui reagisce al suo dolore? Poi qualcuno la intervista… Chi osa avvicinarsi ad una madre col suo dolore? Questo dolore? Io non di certo. Lei è la madre di due ragazzi morti. Uno di loro era mio compagno di scuola. Proprio così. Abbiamo passato tre anni nella stessa aula. Ho visto forse più lui dei miei genitori in quegli anni. Abbiamo giocato insieme, chiacchierato, cercato di scansare le interrogazioni impunemente.
E non sono nemmeno riuscita a dirle chi sono. Lei non mi ha riconosciuto e a me è stato bene così. Ma qualche temerario c’è stato. Qualcuno a cui Angela ha detto che la sua vita non ha più una ragione se non quella di far visita ai figli al cimitero, portar loro un mazzo di fiori. Così, dopo giornate passate ad ascoltare i miei colleghi, dopo ore di udienza e di attesa capisco. Era fastidio. Avevo fastidio a vedere quella donna che col suo dolore fisso negli occhi sembrava accusarci tutti. Era fastidio perché una sensazione sgradevole che non riconoscevo – figuriamoci se riuscivo a controllare – mi si ficcava dentro ogni sinapsi e giungeva alla mia testa come un’iniezione di adrenalina in vena. E accendeva ogni campanello di allerta. Procurandomi una sensazione strana, di inadeguatezza. Fastidio perché io vivevo il mio quieto mondo di giuristi e norme e precetti e lei ci ficcava dentro a prepotenza la “sostanza” che inconsciamente bannavo dalla “faccenda”.
Affranta, ci metteva la disperazione. La calcava a forza dentro quell’aula, con un nerbo inammissibile, per farcela entrare tutta. Senza la sua tenacia quelle quattro mura non avrebbero mai potuta contenerla. Le chiedo scusa. L’”acquisizione istruttoria”, le testimonianze, le arringhe non c’entravano nulla con quel vuoto infinito di vita persa per sempre.
E non c’entrava nulla nemmeno il mio fastidio da borghese che rifiuta umanità e compassione solo per non star troppo male. Adesso l’ho capito. Piango.